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Una veduta della 36ma edizione della Biennale di San Paolo, «Nem todo viandante anda estradas. Da humanidade como prática»

© Levi Fanan / Fundação Bienal de São Paulo

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Una veduta della 36ma edizione della Biennale di San Paolo, «Nem todo viandante anda estradas. Da humanidade como prática»

© Levi Fanan / Fundação Bienal de São Paulo

Tutte le strade dei viandanti: la 36ma Biennale di San Paolo

La seconda biennale più antica della storia quest’anno è dedicata al tema di un’umanità alla ricerca del mondo e della sua poesia

La 36ma Biennale di San Paolo, «Nem todo viandante anda estradas. Da humanidade como prática»Non tutti i viandanti percorrono strade. Dell’umanità come pratica», Ndr), ha il carisma di Bonaventure Soh Bejeng Ndikung, capocuratore della manifestazione, insieme ad Alya Sebti, Anna Roberta Goetz e Thiago de Paula Souza, con la curator at large Keyna Eleison e della consultoria di Henriette Gallus, per quanto riguarda le strategie di comunicazione.

Camerunense, direttore dell’Haus der Kulturen der Welt (Hkw) di Berlino, Bonaventure ha introdotto la sua edizione (fino all’11 gennaio 2026), in un’affollatissima conferenza stampa, con enfasi quasi antica: «Essere umani significa comprendere, enfatizzare, celebrare, collaborare, abbracciare molteplicità, avere compassione e, soprattutto, essere umani è una pratica dell’umanità».

Per dirla in parole fin troppo semplici potremmo dire che alla Biennale di San Paolo sono tornati i romantici, o meglio, coloro che intendono l’arte come forza propulsiva, come momento generativo, come strumento per cambiare il mondo o, per lo meno, per tentare di mettere un freno alle divergenze, per unire pensieri, mondi differenti, culture opposte e lingue mai intersecatesi tra di loro per costruire una nuova rete di comunicazione, di ascolto e di sostegno che superi le barriere.

Per Keyna Eleison, che è già stata curatrice della prima edizione della Biennale delle Amazzonie, nel 2023 a Belém, nel nord del Brasile, si tratta di distruggere gabbie e limiti, attivando campi di ascolto e di ascoltare ciò che pulsa oltre le barriere e oltre il proprio mondo, puntando anche sui concetti musicali dell’improvvisazione: «Perché improvvisare è una tecnologia di esperienza».

Insomma: stavolta sul piatto non ci sono né androidi né intelligenze artificiali e, lo sottolinea il curatore aggiunto Thiago de Paula Souza, «Nem todo viandante anda estradas», verso preso dal poema della scrittrice brasiliana Conceição Evaristo, Da calma e do silêncio, apre paesaggi dove la luce naturale si incontra con la grandiosa architettura di Oscar Nyemeier, creatore del Padiglione Ciccillo Matarazzo, sede della Biennale, il cui primo nucleo è dedicato proprio all’idea di una connessione tra il visitatore e il sogno, tra la texture verde e l’energia del Parco Ibirapuera, fuori dalle vetrate. Le opere, in questo capitolo (sono sei in totale i nuclei espositivi, Ndr) intitolato «Grammatiche dell’insorgenza», tematizzano le capacità generative dell’intelligenza del suolo e della terra, le nostre radici e la relazione di dipendenza che l’umanità mantiene con essa, in quello stesso suolo che ci costituisce e al quale inevitabilmente ritorneremo.

Una veduta dell’installazione di Akinbode Akinbiyi alla 36ma Biennale di San Paolo. © Levi Fanan / Fundação Bienal de São Paulo

Gê Viana (1986), artista di São Luís do Maranhão, apre la 36ma edizione della Biennale con un progetto commissionato per l’occasione e monumentale: «A colheta de Dan». Si tratta di una parete di casse sonore, a cui sono associate fotografie e collage che rimettono proprio a quell’universo magico dove il fiume Anil si incontra con l’Atlantico, come ricordato dallo stesso Thiago de Paula, creando incroci che superano i limiti, mischiando acque e specie e, giustappunto, ibridando culture: in questo caso è il reggae, arrivato sulla costa del Nord del Brasile attraverso onde corte provenienti dai Caraibi, creando una nuova melodia assolutamente unica che ha incontrato, anche, le tradizioni e i culti di matrice afrodiasporica. Accanto all’artista brasiliana c’è l’installazione di Precious Okoyomon (1993), già ampiamente conosciuta in Italia per la sua collaborazione con la Fondazione Sandretto, con un intervento che è assolutamente la sintesi-sinestetica dell’incrocio tra arte e natura: un parco in cattività affacciato sullo stesso Ibirapuera.

A pochi passi, la comunità artistica e quilombola creata da Dalton Paula con Ceiça Ferreira, il Sertão Negro, alle porte di Goiânia, è presente come opera collettiva includendo non solo gli artisti in residenza, ma anche le antiche fotografie del Quilombo Kalunga, per esempio: «Abbiamo scelto di portare alla biennale un ideale “quaderno d’artista” per formalizzare questa idea di collettività espansa, lasciando percepire che si tratta di voci di epoche differenti e che su materiali differenti si sono confrontati», racconta Ceiça, direttrice dell’istituzione, anticipando una serie di «attivazioni», dalle tavole rotonde alle performance, che coinvolgeranno gli spazi della Biennale a partire da questo fine settimana e per tutta la durata della manifestazione, fino al prossimo gennaio.

Sullo stesso piano, quello dell’entrata, si continua con nomi come Sallisa Rosa, Laure Prouvost, Nádia Taquary: sfoderando gli assi latinoamericani e non solo, insomma. E continuando a rimarcare, anche negli statement curatoriali, della necessaria attitudine a resistere a tutte le forme di disumanizzazione. «La nostra storia è marcata per innumerevoli esempi di umani disumanizzando altri umani. La resistenza contro l’appropriazione della terra e l’estrattivismo, contro l’annichilimento culturale e l’opposizione allo sfruttamento predatorio della natura sono i cardini del capitolo che prende come esempio l’emancipazione sociale e la sovranità come pilastri di una giustizia egualitaria, come ricordato nelle melodie di Peter Tosh», continua l’indicazione del team curatoriale.

Una veduta dell’installazione di Antonio Társis alla 36ma Biennale di San Paolo. © Levi Fanan / Fundação Bienal de São Paulo

D’impatto è l’installazione dell’artista cinese Song Dong (1966), «Borrow Light», traducibile come «Luce in prestito» che, oltre a rimarcare una dimensione pop con le sue centinaia di lampade e lampadari disposti in una sala specchiante, nella quale filtra anche la luce esterna, rimette allo spreco energetico e al fatto che, alla fine dei conti, l’elettricità domestica come invenzione della modernità dipende da innumerevoli fattori contingenti, uno tra tutti quello uno stato di «pace» politica.

Insomma, la Biennale si presenta come molto, molto densa. D’altronde gli artisti in totale sono 125, di cui molti «omaggiati» con raccolte che sono delle piccole personali: Marlene Almeida (1942), una delle maestre dell’arte brasiliana contemporanea con due grandi installazioni dedicate al potere della terra; Gervane de Paula (1961), a sua volta un grande nome del contemporaneo nell’America del Sud, per lungo tempo considerato «popolare» o, semplicemente, politicamente scorretto, e oggi finalmente riconosciuto.

Per i più critici: non vi sarà nulla di nuovo nel lavorare con oggetti di scarto come spazzolini da denti, tappi di bottiglie di bibite e componenti di tastiere, ma è impressionante l’installazione di Moffat Tagadiwa (1983), artista di Harare che per la Biennale ha creato «Portais para mundos submersus» («Portali per mondi sommersi», Ndr) per raccontare anche l’inquinamento da microplastiche che, nel litorale paulista, ha la sua massima concentrazione e contaminazione al mondo.

Grande spazio è dedicato a Juliana dos Santos (1987), attualmente in mostra anche alla Pinacoteca di San Paolo e di cui Luisa Strina ha appena annunciato la futura rappresentanza, prima artista a beneficiare del supporto della maison di moda Chanel, che utilizza il pigmento azzurro della Clitoria ternatea (pianta tropicale conosciuta come fiore di pisello blu) come forma per investigare il colore in quanto esperienza sensibile nel processo di ampliamento della percezione.

Una veduta dell’installazione di Christopher Cozier alla 36ma Biennale di San Paolo. © Levi Fanan / Fundação Bienal de São Paulo

E non sarà nulla di nuovo nemmeno il lavoro di ricamo di icone con perline e paillette di Myrlande Constant (1968), artista tessile haitiana specializzata in drappi che si rifanno ai culti ancestrali che produce sotto la guida degli Iwa, enti spirituali di «mediazione» tra questo e l’altro regno: un’arte che, ancora una volta, si potrebbe accantonare nel cassetto del genere popolare, nel senso più dispregiativo del termine, ma che nella realtà si trasforma in un percorso di rara preziosità.

Superba anche l’installazione di Antonio Társis (1995, rappresentato dalla galleria Fortes d’Aloia e Gabriel; vive tra Salvador e Londra) che da tempo usa il fiammifero e il fuoco come materiali poetici, a cui stavolta offre anche una componente sonora: nella grande «Catastrofe Orchestra» una serie di pareti sospese, create con scatole di zolfanelli e relativo involucro, la forza primordiale del fuoco che accompagna la storia dell’umanità parla anche dell’intimità delle nostre vite.

«Il fiammifero è un oggetto umile, ma carico di potenziale: può accendere una fiamma, scatenare un incendio oppure offrire aiuto nel freddo. Racchiude in sé la memoria del calore e della combustione. Il lavoro si intitola “Catastrofe Orchestra” perché concepisco l’installazione come una sinfonia di materiali in dialogo tra loro. Il carbone, ad esempio, è un elemento che ha già vissuto una trasformazione attraverso il fuoco, diventando qualcosa di nuovo: non è più legno, non è ancora cenere, ma si trasforma nel seme di un processo concluso. L’installazione, che ha richiesto otto mesi di lavoro meticoloso, parla insomma della memoria intrinseca dei materiali e della loro risonanza. Tutta la tecnologia che ci circonda, persino il cellulare, è il frutto di processi di combustione e fusione avvenuti in passato. La mia riflessione si collega anche al suono e al ritmo. Il tamburo è un’altra tecnologia ancestrale del calore, fondamentale per costruire comunità e umanità», ci racconta l’artista.

E il resto? Forse l’energia tra le opere è intermittente e la retorica è alle porte. Ma nella grande confusione e divisione globale, puntare sul concetto di umanità e soprattutto sulla sua unità, senza fare apologie di bandiere o distinzioni di generi, è già una grande conquista per tentare la scrittura di una poesia ottimista: «La biennale si chiude con la tesi iniziale di questo progetto: la bellezza in sé è politica. Per chi non possiede nulla, la bellezza è resistenza. La bellezza rende un po’ più umani», recita una piccola parte dell’ultimo nucleo della mostra.

Una veduta dell’installazione di Marlene Almeida alla 36ma Biennale di San Paolo. © Levi Fanan / Fundação Bienal de São Paulo

Matteo Bergamini, 11 settembre 2025 | © Riproduzione riservata

Tutte le strade dei viandanti: la 36ma Biennale di San Paolo | Matteo Bergamini

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