Assieme a Andy Warhol e Roy Lichtenstein, Jim Dine, classe 1935, è uno dei più celebrati artisti dell’arte pop. Dopo il suo trasferimento a New York alla fine degli anni ’50, fondò fra l’altro assieme a Claes Oldenburg e Marc Ratcliff la Judson Gallery e divenne un assiduo realizzatore di happening. Le sue opere allora incentrate su cuori, accappatoi, attrezzi e barche lo fecero presto affermare nel firmamento internazionale, fruttandogli una prima partecipazione alla Biennale di Venezia nel 1964 e nel 1968 alla documenta IV a Kassel. L’ultima mostra che l’Albertina gli ha dedicato risale al 2016. Allora il fulcro erano stati gli autoritratti, con una selezione di 60 lavori con tecniche diverse, con cui Dine offriva un’ampia riflessione su sé stesso: un «compendio di sentimenti», come ebbe a dire in quell’occasione.
Il rapporto di Dine con l’Austria risale alla fine degli anni ’80, quando avviò una collaborazione con lo stampatore viennese Kurt Zein, e quindi con la stamperia Chavanne & Pechmann, non lontana dalla capitale. Nel 1993-94 è stato inoltre docente all’Accademia Estiva di Salisburgo fondata da Kokoschka. Nel 2015 ha donato all’Albertina un vasto corpus di 230 autoritratti realizzati a partire dagli anni ’50. Nel 2020 ha di nuovo elargito al museo viennese 400 opere di grafica. La nuova mostra aperta dall’8 novembre al 23 marzo 2025, col titolo «Jim Dine», attinge a entrambe le donazioni, allargando tuttavia l’ambito della presentazione e soprattutto spostando il fulcro sulla grafica in tutte le sue varianti e declinazioni: «Si tratta di un antico amore di Dine, spiega la curatrice Constanze Malissa, e ritengo sia senz’altro al campo della grafica che l’artista abbia dato un proprio importante apporto, contribuendo al suo sviluppo, grazie a una continua reinvenzione e a una creativa fusione di diverse tecniche. Nella scelta delle opere ci siamo orientati quindi soprattutto in quella direzione, tralasciando la pittura e la fotografia».
Nella selezione operata con il contributo di Dine non mancano esempi di autoritratti, che mostrano il divenire umano dell’artista, dagli anni giovanili alla maturità, e che vengono integrati da opere raffiguranti i suoi noti accappatoi, considerati da Dine una sorta di surrogato di sé, e dunque autoritratti, ancorché senza membra e senza volto. Grande risalto hanno pure gli altri motivi che l’hanno reso celebre: «I cuori naturalmente, che lo accompagnano dagli anni ’60, prosegue Malissa, e ancora più indietro nel tempo vanno ricercate le radici della sua predilezione per gli attrezzi, nata grazie alle attività commerciali nel settore sia del nonno sia del padre. Martelli e seghe, pinze e tenaglie, cacciaviti e trapani sono stati un leitmotiv dell’infanzia e dell’adolescenza dell’artista e hanno continuato nel tempo a conservare il loro fascino, tanto che la sua casa ne è piena e, ammette Dine, ancor oggi non riesce a passare davanti a una ferramenta senza comprare qualcosa». Un posto di rilievo nel percorso espositivo è affidato alla figura di Pinocchio, cui Dine si avvicinò dapprima negli anni ’40 col film di Walt Disney, e quindi attraverso la lettura del libro di Collodi, ma che entrò nella sua iconografia solo dalla metà degli anni ’90. Fra le opere in mostra spiccano anche acqueforti che raffigurano la prima moglie Nancy, e una monumentale xilografia a colori in cinque parti, «Asleep with his Tools, Jim Dreams» del 2018.