Una Biennale necessaria. La guerra in corso in Ucraina dà ulteriore linfa e significato a «Il latte dei sogni», la 59ma edizione dell’Esposizione Internazionale d’Arte di Venezia, in programma dal 23 aprile al 27 novembre tra i Giardini e l’Arsenale e curata da Cecilia Alemani.
Una mostra ad altissimo tasso di partecipazione femminile, che contrasta «la presunta idea universale di un soggetto maschio, “uomo della ragione” come centro dell’universo e misura di tutte le cose», come ha già dichiarato Cecilia Alemani, ispirandosi per il titolo a un libro di fiabe della surrealista Leonora Carrington, colmo di creature fantastiche e che guarda alla metamorfosi del corpo e della sua identità anche sessuale. Ma al centro della scena mondiale c’è appunto in questo momento proprio un soggetto maschio come Vladimir Putin che mette in pericolo la pace universale.
Quanto sta accadendo in Ucraina, per volontà innanzitutto di un uomo solo, rende ancora più attuali, secondo lei, le tematiche di questa Biennale che guarda invece alla fine dell’antropocentrismo e alla risposta dell’arte alle molte emergenze (da quella climatica, a quella pandemica, a quella bellica) che attraversano in questo momento il nostro pianeta?
È indubbiamente così, anche se la Biennale è stata ovviamente concepita prima di questi drammatici eventi che ci stanno scuotendo tutti. Sembra impossibile che nel 2022 si debba ancora vivere una situazione del genere legata a quanto accade in Ucraina per opera appunto di un uomo solo. La mostra guarda più alla dimensione esistenziale e universale, alla risposta poetica a questo antropocentrismo ancora dilagante, che ora mette in pericolo tutti noi.
La Biennale Arte riunirà le partecipazioni nazionali di moltissimi Paesi, compresa proprio l’Ucraina, nonostante le difficoltà della guerra. Questa le dà ulteriore forza.
Ho sempre creduto nella formula delle partecipazioni nazionali della Biennale, nata sulle scia delle Esposizioni universali ottocentesche, che qualcuno considera obsoleta. Per me è il contrario, un punto di forza, anche perché l’arte e la cultura nella varietà delle proprie espressioni devono continuare a dialogare anche in un momento come questo. Quanto all’Ucraina, ci sarà, nonostante le difficoltà di artisti e curatori a raggiungere Venezia, ma siamo in costante contatto con loro per fornirgli tutto l’apporto di cui abbiano bisogno. Comprendiamo anche il dramma umano di queste persone che lasciano il proprio Paese in guerra per partecipare alla Biennale e non sanno quando potranno rientrarvi. Stiamo anche studiando con le artiste ucraine le iniziative che potremo organizzare nel corso della Biennale per sensibilizzare il mondo dell’arte su quanto sta avvenendo.
La Russia invece ha deciso di chiudere il proprio padiglione. Nella sua mostra tuttavia ci sono artiste ucraine storicizzate (penso a Sonia Delaunay), ma anche russe come Ida Far, Marine Vassilief e, tra le viventi, Zhenya Machneva. Può diventare questo anche un modo per dimostrare come l’arte e la cultura debbano continuare a dialogare anche nel pieno della guerra? E la Machneva sarà a Venezia?
Che il Padiglione russo resti chiuso nell’attuale situazione mi sembra inevitabile, visto che i padiglioni rappresentano le Nazioni partecipanti. Ma che il dialogo tra gli artisti (rappresentato anche all’interno della Biennale) debba continuare non c’è dubbio e credo che la Machneva sarà regolarmente a Venezia nonostante le difficoltà. Non è facile per tutti noi continuare a occuparci di arte in un momento in cui il mondo sembra impazzito.
La situazione attuale legata alla guerra sta creando problemi per l’organizzazione generale della mostra dal punto di vista logistico e degli arrivi?
Purtroppo sì, e non sto a parlare della mia odissea per raggiungere Venezia. Anche per i trasporti e l’aumento energetico tutto è rincarato e sono diventate difficili anche le spedizioni internazionali delle opere, non solo quelle intercontinentali. È una situazione che monitoriamo costantemente, ma speriamo di riuscire comunque a organizzare una Biennale come nelle aspettative.
Lei ha già rifiutato l’etichetta di Biennale Arte femminista.
Non mi piace questa etichetta, anche se in mostra ci sono certamente artiste femministe, ma anche non. Il femminismo viene interpretato diversamente nei vari Paesi, ci sono già state mostre eccellenti sull’arte femminista, come ad esempio qualche anno fa «Radical Women» all’Hammer Museum di Los Angeles. Ma non è il caso della mia Biennale che pure avrà, per precisa scelta, una forte partecipazione femminile.
Presentando anche le cinque «capsule» storiche (mostre tematiche che accompagneranno il percorso centrale creando confronti con gli artisti contemporanei esposti), lei ha però messo in evidenza come siano anche una sorta di «risarcimento critico» per le artiste spesso dimenticate di vari movimenti, dal Surrealismo all’Arte programmata.
Non è certo mia intenzione riscrivere la storia dell’arte, ma credo che un approfondimento storico sia necessario, vedendo che delle artiste di movimenti come il Bauhaus, il Surrealismo o l’Arte programmata si parla pochissimo. Ho scoperto un dato per me sconvolgente, come quello che vede in quaranta edizioni della Biennale Arte del primo secolo di vita dell’istituzione presenti in esposizione solo un dieci per cento di artiste. Non pretendo di riequilibrare la media con la mia edizione, solo di dare loro lo spazio che meritano.
Sono pochissimi le artiste e gli artisti già celebrati presenti in mostra. È stata una scelta fatta a tavolino o è frutto del suo lavoro di selezione?
Non è stata una scelta deliberata, ma l’impossibilità a causa della pandemia di frequentare le gallerie d’arte e gli spazi espositivi, anche a New York dove vivo, ha certamente influito in questo senso. C’erano poi artisti già presentati nella Biennale Arte precedente di Ralph Rugoff, che proprio per questo non ho riproposto. Ho cercato piuttosto di ampliare i confini rendendo la mostra davvero globale nonostante le difficoltà di spostamento, con artisti provenienti da 58 Paesi.
180 artisti su 213 previsti non hanno mai esposto prima alla Biennale. È stata una scelta precisa?
Aggiungo che dei 29 artisti selezionati che avevano già esposto, solo nove sono contemporanei. Ho cercato di allargare il più possibile lo spettro degli artisti, dando spazio a chi a mio avviso lo meritava.
E 26 tra artiste e artisti sono italiani. Era da un pezzo che non si vedeva una partecipazione nazionale così folta nella mostra principale.
Sentivo la responsabilità, essendo parte del sistema, di sostenere gli artisti italiani, non in modo acritico, ma dando spazio a giovani che lo meritavano, come Giulia Cenci, Diego Marcon, Sara Enrico, Chiara Enzo, tra gli altri. Lavorando all’estero so quanto sia difficile per un artista italiano imporsi oltre i confini, per noi più di altri. Sarebbe una grande soddisfazione per me se qualcuno di quelli selezionati per questa Biennale potesse in futuro esporre, per esempio, alla Biennale di Berlino o a New York.
La fine dell’antropocentrismo è appunto uno dei cardini critici della sua mostra. A che cosa deve portare?
A una cultura meno totalizzante e a un’accettazione della diversità, immaginando un mondo in cui si possa coesistere con l’ambiente e in simbiosi con le altre specie viventi. Sono molte le artiste e gli artisti che ritraggono la fine dell’antropocentrismo celebrando una nuova comunione con il non umano, con l’animale e con la terra. Altri reagiscono riscoprendo forme di conoscenza locali e nuove politiche identitarie. Altri ancora praticano ciò che la filosofa femminista Silvia Federici descrive come il «re-incantesimo del mondo», mescolando sapori indigeni e mitologie individuali in modi non dissimili da quelli immaginati da Leonora Carrington.
Tutto ciò porterà a una mostra inquietante come già prefigura qualcuno?
Assolutamente no. Sarà una mostra piena di vita, molto colorata, concreta e oggettuale. Sarà piena di quadri, di sculture, di oggetti e con pochissimi video. Perché la nuova tecnologia non è detto che debba essere digitale, può essere anche analogica. Non ci saranno opere concettuali, ma che hanno a che fare con la materia, come la grande installazione che raffigura un labirinto di terra proposta dall’artista colombiana Delcy Morelos alle Corderie dell’Arsenale.
La scelta delle cinque «capsule» storiche disseminate nella sua mostra ripropone un confronto con il contemporaneo. Secondo lei è necessario alla Biennale?
Assolutamente sì. La Biennale non può essere solo l’esposizione delle ultime tendenze artistiche, che pure ci saranno, ma deve essere anche un momento di riflessione sulla propria storia. L’ho capito realizzando due anni fa la mostra storica «Le muse inquiete». C’è chi per la mia mostra ha parlato di un confronto con «Identità-Alterità» di Jean Clair, l’esposizione del centenario della Biennale che non ho visto ma che ho tenuto presente, anche perché parla delle trasformazioni del corpo. Ma ho guardato in particolare alla Biennale del ’48, quella in cui anche Rodolfo Pallucchini, allora segretario generale, teorizzò la necessità del confronto con le opere del passato come un fatto fondamentale per la mostra.
Simone Leigh, selezionata anche per la sua esposizione, sarà la prima artista afroamericana a rappresentare il suo Paese. E molte altre Nazioni hanno selezionato un’artista.
Sì, la Gran Bretagna con Sonia Boyce, o la Francia con Zineb Sedira, prima artista algerina a rappresentare la Francia, o altre. Ma si è trattato di una felice coincidenza, visto che spesso le designazioni dei Paesi sono arrivate prima. La presenza dei padiglioni nazionali resta fondamentale per la Biennale.
La Biennale Arte registra negli ultimi anni una crescita costante di pubblico. Si è posta il problema di dover fare anche una mostra «popolare» per attirarlo?
A New York, con l’High Line Art, il programma di arte pubblica che dirigo nell’omonimo parco urbano, abbiamo raggiunto gli 8 milioni di visitatori l’anno, per cui il rapporto con il pubblico non mi preoccupa. Non mi sono posta il problema di assecondarlo, ci possono essere diversi livelli di lettura per una stessa opera.
È riuscita a fare tutto ciò che si proponeva per la mostra?
Per l’emergenza legata al virus mi è mancata la possibilità di viaggiare, di andare in Asia e in Africa a vedere gli artisti sul posto, era impossibile. E ora la guerra in Ucraina ha creato nuove complicazioni. Credo che questa mostra abbracci comunque una visione globale del mondo dell’arte.
6 ARTISTE: PERCHÈ LE HO SCELTE
Christina Quarles
Giardini, Padiglione Centrale
«Il latte dei sogni» si apre con una «capsula del tempo» di opere di artisti surrealisti del Novecento e con quello che Cecilia Alemani descrive come il loro «dominio del meraviglioso in cui anatomie e identità possono spostarsi e cambiare». I dipinti della Quarles, attiva a Los Angeles, sono un esempio potente di come gli artisti continuino a fondarsi su quella concezione surrealista del corpo: in costante movimento, le figure volteggiano, si trasformano e si deformano entro spazi che evocano paesaggi e interni digitali, realizzati con colori intensi e lampi di pura esuberanza pittorica.
Charline von Heyl
Giardini, Padiglione Centrale
Charline von Heyl è uno dei tanti artisti che, come fa notare Cecilia Alemani, adotta «segni, simboli e linguaggi privati». I suoi dipinti sono tanto avvincenti quanto sfuggenti. Secondo la pittrice Allison Katz, allieva della Von Heyl e lei stessa presente nella mostra della Alemani, l’artista tedesca ha deciso di «dipingere come nessuno (nemmeno sé stessa)». Ha così dato vita a un’opera in qualche modo sfuggente ma sempre affascinante.
Lynn Hershman Leeson
Arsenale, Corderie
Cecilia Alemani anticipa che nella sua sezione finale la mostra «assume toni più freddi, più artificiali e umani e la figura diventa sempre più evanescente». Qui entra in scena Lynn Hershman Leeson: una pioniera per gli artisti che esplorano idee di postumanità, ha studiato biologia e dal 1995 lavora con l’Intelligenza Artificiale. Nelle sue installazioni multimediali esplora di tutto, dal «bioprinting» alle modificazioni genetiche. Per «Il latte dei sogni» sta creando un nuovo video che, spiega la Alemani, «celebra la nascita di organismi artificiali».
Merikokeb Berhanu
Giardini, Padiglione Centrale
Merikokeb Berhanu è citata da Cecilia Alemani come esempio di artista che crea «nuove forme di simbiosi tra animali e esseri umani», costruendo «narrazioni che intrecciano timori ambientali e antiche divinità ctonie, che generano innovative mitologie ecofemministe». I dipinti dell’artista etiope, che vive nel Maryland, da lontano appaiono astratti, ma contengono aspetti chiaramente corporei, nonché forme che suggeriscono paesaggi e organismi cellulari. Il suo lavoro, ha dichiarato, evoca la frattura provocata dalla sua emigrazione negli Usa.
Delcy Morelos
Arsenale
Dopo la capsula del tempo dedicata ai recipienti (ispirata al saggio di Ursula Le Guin The Carrier Bag Theory of Fiction, che si schiera a favore di una letteratura ispirata non dalle armi ma da borse o contenitori) vi è una sezione con numerosi artisti che usano la ceramica. La colombiana Delcy Morelos traccia parallelismi tra le qualità «mortali e vulnerabili» di argilla e corpi umani, in ambienti costruiti con ceramiche ricche di minerale rosso. Attingendo a una quantità di fonti, tra cui le cosmologie andine e altre culture indigene, creerà (anticipa la Alemani) un «labirinto di terra» nel Padiglione Centrale, .
Solange Pessoa
Arsenale, Giardino delle Vergini
La mostra si conclude con un gruppo di opere negli spazi all’aperto all’Arsenale. La scultura dell’artista brasiliana Solange Pessoa, spiega Cecilia Alemani, è tra le tante che «guida i visitatori al Giardino delle Vergini lungo un sentiero che conduce attraverso esseri animali, sculture organiche, rovine industriali e paesaggi disorientanti». Le sculture in pietra ollare della Pessoa sembrano al contempo evocative del corpo e del paesaggio, nate nel presente ma riecheggianti un lontano passato.
BIENNALE DI VENEZIA