Quando una mostra d’arte antica è organizzata su due sedi ce n’è sempre una che si avvantaggia rispetto all’altra. È piuttosto ovvio dato che i prestatori coinvolti difficilmente concederanno le opere per l’intera durata della rassegna (nel caso specifico quasi sette mesi). È quello che è capitato all’esposizione di «Vittore Carpaccio. Dipinti e disegni» aperta fino al 18 giugno nel Palazzo Ducale di Venezia (proveniente dalla National Gallery of Art di Washington). Non me ne sarei accorto se non avessi sfogliato il bellissimo catalogo Marsilio che correda la mostra, in cui sono schedate le opere presentate in entrambe le sedi. Confesso di essermi precipitato a Venezia a partire dall’idea che mi ero fatto assaporando il catalogo. Questa premessa serve a giustificare il giudizio un po’ tiepido che affiorerà nella lettura della recensione.
Il percorso della mostra veneziana disegna il profilo di un Carpaccio minore e questo a causa dell’assenza di troppe opere iconiche. Faccio solo qualche esempio, pescandolo sempre dal catalogo: la «Meditazione sulla Passione di Cristo» del Metropolitan Museum di New York, il «Sant’Agostino nello studio» e il «San Giorgio e il drago» (entrambi in San Giorgio agli Schiavoni), il «Giovane cavaliere» del Museo Thyssen-Bornemisza e la «Consacrazione di Stefano» della Gemäldegalerie di Berlino. Qualcuno potrebbe giustamente obiettare: «Che cosa cambierà mai dall’assenza di cinque dipinti?». La risposta è molto semplice: tutto.
Mi è capitato raramente di vedere una mostra su un pittore del Rinascimento così straordinariamente ricca di disegni. Sì, certo, Michelangelo e Leonardo, ma in genere i disegni servono a mascherare l’assenza di opere maggiori (sculture e dipinti). Qui il discorso è diverso, almeno sulla carta, anche se la sensazione finale è la medesima.
Nelle intenzioni del curatore della mostra Peter Humfrey (professore emerito dell’Università di St. Andrews) l’iniziativa è da leggere unitariamente, com’è dimostrato dal catalogo che, ripeto, è ben costruito e altrettanto ben stampato. Peccato che il visitatore di Palazzo Ducale sia inconsapevole di questa legittima intenzione e qualora anche ne fosse avvertito non potrebbe fare a meno di assistere impotente a quello che gli si para davanti, ovvero una mostra dimezzata.
Ma veniamo al percorso. Va detto subito che è una monografica pura, quindi non si vede nessuna opera che non sia riconducibile a Vittore Carpaccio o alla sua bottega. Nella prima sala il visitatore incontra le testimonianze d’esordio del pittore, databili alla fine degli anni Ottanta del Quattrocento, assieme ad alcuni disegni legati al celebre Ciclo di Sant’Orsola, esposto nelle vicine Gallerie dell’Accademia (peccato che proprio la sala che lo ospita, la XXI, sia chiusa al pubblico per lavori di ristrutturazione). Qui il visitatore non può fare a meno di rimanere attratto dalla ricomposizione di due tavole che erano state brutalmente segate alla fine del XVIII secolo, ora collocate come un totem al centro di una sala.
Il telaio che le tiene unite, la barra centrale che colma la porzione mancante, l’orientamento e l’intensità della luce, tutto risulta perfettamente curato. Si tratta dell’anta di una porta, dipinta su entrambi i lati, raffigurante due donne sedute su un’altana mentre in lontananza va in scena un episodio di pesca in laguna (l’opera è divisa tra il Museo Correr di Venezia e il J. Paul Getty Museum di Los Angeles). Poco dopo si incontra l’intenso «Cristo morto sostenuto da due angeli» proveniente dalla Fondazione Magnani-Rocca, messo accanto, per motivi iconografici, alla grande tavola con il «Sangue del Redentore» di Udine, datata 1496.
Come dicevamo il peso dei disegni nell’economia del progetto espositivo è notevole, tanto che la tappa veneziana avrebbe potuto invertire il sottotitolo: «Disegni e dipinti». Non è una critica, anzi, anche se queste straordinarie prove grafiche interessano assai più gli specialisti che il grande pubblico. In ogni caso si possono seguire tutti i processi creativi di Carpaccio, dalla prima ideazione fino agli studi dettagliati di significativi particolari della composizione, messi a fuoco in fogli separati. Non si può non rimanere incantati di fronte agli «Studi per un giovane in armi», proveniente dal Met di New York. In molti casi i disegni, nel tracciato narrativo della mostra, sostituiscono la presenza di dipinti: com’è capitato al notevole foglio con la «Sacra conversazione» della Morgan Library di New York, preparatorio per l’analogo quadro del Petit Palais di Avignone.
Un momento particolarmente felice coincide con la ricomposizione del Ciclo degli Albanesi: sei tele di formato quadrato commissionate nei primissimi anni del Cinquecento dalla Scuola degli Albanesi a Venezia, prestati da vari musei italiani. Un’opera ideata da Carpaccio ma in larga parte frutto della bottega.
Il finale della mostra è in linea con il ripiegamento su sé stesso del pittore, incapace di assimilare le novità della «maniera moderna». Ma anche in questa zona si trovano degli autentici gioielli, compreso il recente e straordinario ritrovamento di una tela raffigurante Dio Padre, scoperta nella parrocchiale di Sirtori, vicino a Lecco. Come avrà fatto ad arrivare fin lì?
«Vittore Carpaccio. Dipinti e disegni»,
Venezia, Palazzo Ducale, 18 marzo-18 giugno 2023
L’autore è professore associato di Storia dell’arte moderna presso l’Università del Salento