Le tensioni sociali degli ultimi anni sono entrate di prepotenza nel lavoro di tanti artisti di tutto il mondo. L’arte impegnata non è però prerogativa dei nostri tempi. Ce lo ricorda una mostra in corso al Center for Italian Modern Art di New York (CIMA), centro di ricerca e spazio espositivo non profit fondato nel 2013, che ogni anno porta nella metropoli americana un’esposizione di arte moderna e contemporanea italiana che diventa oggetto di studio per i ricercatori ospitati dal centro ed accende i riflettori su capitoli poco noti della nostra storia dell’arte.
Per il 2022 il CIMA ha organizzato «Staging Injustice: Italian Art 1880-1917» che raccoglie circa 20 opere, tra dipinti e sculture, di 15 artisti del periodo verista, in prestito da musei italiani e collezioni private. Il periodo storico analizzato è quello di forte accelerazione industriale che precede la Prima guerra mondiale e durante il quale iniziano ad emergere le problematiche sociali e le ideologie che segneranno il corso del Novecento.
L’arte reagisce facendo entrare la realtà nella rappresentazione artistica e affrontando direttamente le questioni sollevate dalle comunità in trasformazione, segnate dallo sfruttamento del lavoro e dalle disuguaglianze economiche che si traducono in conflitti di classe e migrazioni. Tutti questi temi appaiono con forza nel lavoro degli artisti esposti e compongono il ritratto di un momento storico che oggi appare quanto mai rilevante.
La mostra, curata da Giovanna Ginex, che chiuderà il 18 giugno, comprende opere disposte seguendo un criterio non strettamente cronologico.
All’ingresso degli ampi e luminosi spazi del loft di Soho, sede del CIMA, arredato come una casa per volontà della fondatrice Laura Mattioli, il visitatore viene accolto da una serie di oli su tela che immediatamente stabiliscono il contesto storico: siamo in quel momento di passaggio dal mondo rurale tradizionale alla società industriale urbanizzata.
Nelle campagne i braccianti, pagati a cottimo per lavorare la terra, vivono di fatica e miseria, come le mondine ritratte nell’opera «Per ottanta centesimi…!» (1895-97) di Angelo Morbelli. Nelle fabbriche e nelle città invece gli operai muoiono sul lavoro come i soggetti di «Incidente di fabbrica» (1889) di Plinio Nomellini e «Il Minatore» (1907) di Ambrogio Alciati, entrambi ritratti attraverso un’iconografia che ricorda le deposizioni dalla croce di tradizione cristiana.
«Si tratta di artisti politicamente impegnati e attivi, che si rifacevano al socialismo di Turati, ma allo stesso tempo colti, ci ha spiegato Giovanna Ginex, che citano l’iconografia classica e rinascimentale del Cristo deposto, nel tentativo di arrivare in maniera intuitiva ad un pubblico che era abituato a quelle rappresentazioni».
Tele di grandi dimensioni, spesso in scala quasi naturale, dai colori netti, offrono una rappresentazione del reale cruda, che non lascia spazio al romanticismo. Si distingue dagli altri per una rappresentazione più espressionista l’opera dell’unica donna proposta, Adriana Bisi Fabbri: il suo dipinto, «Madre» (1917), ritrae il dolore materno nello stringere il corpo morto di un neonato e evoca così gli orrori della guerra che imperversava in Europa in quegli anni (un tema che oggi, alla luce del conflitto russo-ucraino, risulta di struggente attualità).
Spostandosi verso la sala principale del loft, si incontra «La ruffiana» (1883-85) di Medardo Rosso che ci introduce ad un altro tema spesso affrontato dall’arte di quegli anni, quello della prostituzione e della condizione femminile. L’allestimento riserva altre gradite sorprese, tra cui opere di Giuseppe Pellizza da Volpedo, il cui famosissimo «Il Quarto stato» è qui evocato da uno studio a carboncino del 1895 e da un precedente «Ambasciatori della fame»(1892): quest’ultimo olio su tela anticipa la composizione del successivo capolavoro del pittore piemontese e rappresenta una rara opportunità di analizzare il procedimento intellettuale e artistico seguito da Pellizza.
Dall’altro lato della sala un’opera successiva dello stesso autore,«Membra stanche. Famiglia di emigranti» (1907), ne evidenzia l’evoluzione stilistica in direzione divisionista per raccontare un altro tema molto sentito dall’arte di quegli anni, quello dell’emigrazione e del lavoro stagionale (tema cui sono dedicate anche altre delle tele qui esposte che tracciano un filo diretto con la storia di New York, meta di tanti di quei viaggi in cerca di fortuna di inizio secolo).
Opere di Emilio Longoni e di Angelo Morbelli raccontano ancora gli scioperi e le condizioni di lavoro di una civiltà che abbandonava le campagne per le città industriali. Troviamo un Giacomo Balla ai suoi esordi con «Contadino» (1902), una delle opere del ciclo «Dei viventi», concepito dall’artista per raccontare «gli umili».Completano il percorso una timeline che aiuta il visitatore a ripercorrere le tappe storiche dell’Italia di quegli anni, una serie di fotografie che ritraggono scene di lavoro e, nella cucina del loft che ospita il CIMA, una serie di riproduzioni di copertine de «La Domenica del Corriere» e de «L’Avanti! della domenica» che raccontano le stesse tensioni sociali e i fenomeni migratori descritti dai lavori esposti.
La collettiva è un’immersione in un periodo dell’arte italiana poco noto al di là dell’oceano e compone un ritratto ricco e variegato della produzione artistica di quei decenni, mostrando differenti stili e approcci in diverse zone d’Italia. Le opere hanno una qualità fotografica e documentale che, rifuggendo la romanticizzazione della povertà, evidenzia un sincero atteggiamento critico e di denuncia.
Nei momenti di crisi, quando la realtà diventa distopica, il realismo è spesso la risposta degli artisti, come se l’arte si prendesse la responsabilità di decodificare il reale e di trasferirlo al pubblico con un linguaggio universale. Proprio l’universalità è il grande pregio di questa mostra che porta lo spettatore a riflettere sul ruolo degli artisti nell’analisi della contemporaneità. Questa mostra riesce a superare un gap di cento anni e a parlare una lingua contemporanea, pur nella sua storicità. Non ci sono infatti ricercatezze e sottigliezze di sorta nelle rappresentazioni del reale di questi artisti, bensì un appello diretto alla società, una richiesta di presa di coscienza e di conseguente azione. In definitiva, «Staging Injustice»parla la lingua del presente.