La Biennale di Gwangju, intitolata «Soft and weak like water» e curata da Sook-Kyung Lee, è allestita fino al 9 luglio in cinque sedi principali della città (Gwangju Biennale Exhibition Hall, Museo Nazionale, Horang-gasy Artpolygon, Mugaksa e Art-space House). Tra i 9 padiglioni nazionali ospiti (Canada, Cina, Francia, Israele, Paesi Bassi, Polonia, Svizzera e Ucraina) di questa 14ma edizione, figura, per la prima volta, anche l’Italia. Abbiamo intervistato la direttrice dell’Istituto Italiano di Cultura a Seul, Michela Linda Magrì, e la capo curatrice del Padiglione, Valentina Buzzi.
Michela Linda Magrì, l’Istituto Italiano di Cultura a Seul, di cui lei è direttrice, promuove la cultura del nostro Paese in Corea del Sud. Quale accoglienza ricevono le vostre attività da parte dei cittadini locali?
L’istituto Italiano di Cultura a Seul (Iic Seul) è un’agenzia governativa che promuove la lingua e la cultura italiana all’estero attraverso eventi nei vari campi della creatività, tra cui musica, danza, opera, design, e architettura, settori di eccellenza italiana molto apprezzati in Corea del Sud. È la prima volta che l’Istituto si muove nel settore dell’arte, e specialmente dell’arte contemporanea, ad alto livello con la produzione del Padiglione Italia, poiché la Corea conosce e ammira l’Italia soprattutto nell’arte classica e rinascimentale. Il Padiglione è dunque stato un primo incipit per incrementare la presenza di un’Italia contemporanea e innovativa nel settore artistico.
Vede affinità tra l’espressione artistica contemporanea della Corea del Sud e quella italiana?
Sì. Ad esempio, nella misura in cui la Biennale di Gwangju stabilisce una conversazione con la Biennale di Venezia nel progetto dei vari padiglioni. In termine di espressione e tecnica artistica, ci sono stati, soprattutto nella seconda metà del ’900, molte similitudini tra l’emergere dello Spazialismo e dell’Arte povera in Italia, e del movimento Dansaekhwa (compagine artistica che negli anni Settanta dipingeva con tavolozze di colori limitate, Ndr) e Ag Group in Corea. Le premesse erano molto simili, e il lavoro di ricerca e di attenzione ai materiali e alle loro proprietà trova molti campi di conversazione e confronto. Ad oggi, forse la differenza tra italiani e coreani nell’espressione ultracontemporanea è che mentre gli italiani guardano molto ai contesti del presente, gli artisti coreani volgono anche un occhio al passato del Paese, investigando e collegandosi con ferite storiche.
Perché l’Istituto Italiano di Cultura ha stabilito una partnership proprio con la Biennale di Gwangju?
La missione di un Istituto Italiano di Cultura all’estero è proprio quella di integrarsi con il territorio per cui è stato molto semplice aderire all’invito che lo scorso settembre la Biennale di Gwangju ha rivolto all’Italia, in quanto Paese molto prestigioso nel campo dell’arte. È stata un’offerta che con Valentina Buzzi (head curator del Padiglione Italia, Ndr) abbiamo colto al volo perché ci ha permesso di mostrare un’Italia poco conosciuta in Corea, quella dell’arte contemporanea. Questo padiglione sancisce l’inizio di una programmazione per il 2023-24 nella quale l’arte sarà un elemento centrale. All’inizio di luglio, ad esempio, arriverà nell’Art Sonje Center di Seul la mostra «The Grand Italian Vision» con opere della Collezione Farnesina.
Valentina Buzzi, com’è nato il tema del Padiglione Italia da lei curato?
Dalla volontà di creare una mostra in collegamento con il tema dell’esposizione centrale, curata da Soo-Kyoung Lee e intitolata «Soft and Weak Like Water». Il Padiglione Italia si intitola «Che cosa sogna l’acqua, quando dorme?» e utilizza la metafora dell’acqua per raccontare un tema a me molto caro: l’idea che esistiamo «in costante trasformazione» e che, una volta riconosciuto che i confini che stabiliamo all’interno del nostro quadro paradigmatico possono evolvere, possiamo lasciare che la possibilità del cambiamento ci abbracci completamente. Questo è il leitmotiv del nostro padiglione, che considero un invito, una spinta gentile che tutti possono cogliere e da cui trarre possibilmente ispirazione. Da alcuni anni sono interessata alla dottrina del cambiamento di Eraclito: il filosofo greco è riuscito a cogliere questa condizione fondamentale di trasformazione che esiste a livello cosmologico.
Per dare vita a questa visione, inclusa la concezione del titolo, è stato fondamentale l’aiuto delle mie assistenti curatoriali (Elisa Carollo e Sofia Baldi Pighi, Ndr). Il progetto è stato anche profondamente informato da pensatrici contemporanee che ammiro, come Donna Haraway ed Elizabeth Grosz. Volevamo che questo quadro di cambiamento si collegasse a temi importanti come il postantropocentrismo, la coesistenza sostenibile tra le specie e anche l’aspetto ritualistico e performativo delle pratiche individuali degli artisti. Inoltre, era importante che tutte le opere contenessero un legame con la Corea del Sud, perché crediamo che, se radicata nello scambio culturale, l’esperienza, soprattutto quella del pubblico del Paese ospitante, diventa più profonda e trasformativa grazie all’equilibrio tra elementi di prossimità e di distanza.
Come avete scelto i cinque artisti presenti?
Camilla Alberti, Yuval Avital, Marco Barotti, Agnes Questionmark e Fabio Roncato sono stati scelti in collaborazione con l’Iic di Seul e con l’aiuto del team curatoriale. Camilla Alberti era già in contatto con l’Iic Seul in quanto vincitrice del concorso pubblico «Cantica21» del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale (Maeci). Radicata in una profonda comprensione teorica del postantropocentrismo e della coesistenza interspecie, la pratica di Camilla si basa sull’idea di costruire mondi e ricalibrare la nostra immaginazione verso una più complessa accettazione della coesistenza. Grazie ai rapporti di collaborazione attivati dall’Istituto Italiano di Cultura con il Seul Institute of the Arts, è stato possibile sviluppare per lei una residenza di ricerca e produzione di tre mesi. Da questa esperienza nasce l’opera «Learning in Dis-Binding» (2023), dove i mostri, come entità non definite né classificabili, raccontano nuove mitologie ibride e interspecie.
Per quanto riguarda Yuval Avital, mi ha sempre stupita la sua capacità di lavorare sugli elementi archetipici e rituali dell’umano, traducendoli in quelle che lui definisce «opere d’arte totali». Abbiamo scelto la sua opera multimediale «Foreign Bodies» (2017-22), che tratta del distacco dell’umanità contemporanea dalla natura, integrata da una performance in collaborazione con danzatori coreani e da una serie di disegni a carboncino e di disegni e dipinti site specific nello spazio del padiglione. Di Marco Barotti, che aveva già esposto in Corea in diverse occasioni, ci piaceva il modo in cui studia scientificamente e si relaziona con il territorio, per poi rielaborare queste informazioni nella poesia delle sue sculture cinetico-sonore. Da qui l’idea di portare «Clams» (2019), un’opera in cui i paesaggi sonori microtonali rispondono ai dati sull’inquinamento dell’acqua, in questo caso dei fiumi di Gwangju.
Agnes Questionmark ha portato una performance molto forte, «Drowned in Living Waters» (2023), in un acquario creato appositamente per il padiglione. Abbiamo presentato anche l’opera scultorea «Draco Piscis» (2023), che incarna il suo interesse nella scienza e nella mitologia, ispirata ai manoscritti miniati del naturalista Ulisse Aldrovandi nel XVI secolo. Di Fabio Roncato mi aveva colpito il suo interesse per la relazione tra i materiali e il loro legame storico, culturale e geografico con il territorio. Così abbiamo aperto una residenza di produzione di sei settimane presso il Dong-gok Museum of Art, sede del Padiglione Italia: l’artista ha lavorato in collaborazione con lo studio artigianale Chang Art a un’interpretazione degli Onggi (vasi tradizionali coreani di uso quotidiano) in gesso alabastrino, poi erosi dalle acque delle cascate e dei fiumi di Gwangju. Ha anche potuto consultare gli archivi dell’Asia Culture Centre sulla storia della città che hanno ispirato la sua opera «Follow Me» (2023), traduzione in una dimensione universale di un’esperienza trasformativa radicata in un luogo storico specifico.
La fruizione tramite l’app Particle offre contenuti e ulteriori letture della mostra italiana. Sarà più utile a chi la mostra può vederla dal vivo o a chi la vorrà visitare «dal di fuori»?
La collaborazione con la startup Particle nasce dall’esigenza di ampliare le modalità di fruizione della mostra, sia all’interno del padiglione, sia da qualsiasi parte del mondo. L’app possiede due «routes» diverse, create ad hoc per una fruizione in sito o a distanza, arricchendole con approfondimenti, contenuti in realtà aumentata e curiosità. Può essere uno strumento molto importante per un pubblico altamente digitalizzato come quello coreano ma, essendo disponibile in tutto il mondo, è utile per esplorare il contenuto del padiglione anche oltreconfine.