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Milano. Una mostra sul lorenese Georges de La Tour (1593-1652) è quasi una sfida, specie in Italia dove, come lamentava Roberto Longhi nel 1935, «non abbiamo nulla di suo». Anche fuori, però, l’impresa è temibile: sono circa 40 le opere autografe che oggi gli sono riconosciute, a fronte di un gran numero di repliche, copie, derivazioni (La Tour, che in vita godette di un’ottima fama, poteva contare su un’attiva bottega), e sulla sua attività d’artista non resta alcun documento, mentre sono numerosi quelli sulla vita privata (sappiamo che ebbe 11 figli e che comprò e vendette varie proprietà ma nulla che concerna l’attività d’artista).
Solo il breve periodo, tra il 1639 e il 1641, trascorso a Parigi con la carica di «peintre du Roi» (Luigi XIII), è documentato, mentre dell’eventuale viaggio in Italia, che chiarirebbe molti punti della sua arte, nulla si sa. Non solo, ma dopo la sua morte persino il suo nome fu dimenticato, fino al 1915, quando Hermann Voss, grazie a documenti scoperti nell’800, attribuì a un certo Georges Dumesnil de La Tour il dipinto «Il neonato» del Musée des Beaux-Arts di Rennes e altre due opere del museo di Nantes. Quello che l’oscurò fu un oblio totale, che condusse molti dei suoi dipinti nei cataloghi di altri pittori, da Velázquez ai fratelli Le Nain, ad anonimi olandesi o fiamminghi.
Insomma, un vero enigma, che Francesca Cappelletti, studiosa di Caravaggio e del Caravaggismo, ha voluto affrontare, per la prima volta in Italia, nella mostra «Georges de La Tour. L’Europa della luce», prodotta da Milano-Cultura, Palazzo Reale e Mondo-Mostre Skira, dal 7 febbraio al 7 giugno in Palazzo Reale (catalogo Skira), che riunisce 15 sue opere, oltre a dipinti di Gerrit van Honthorst, Paulus Bor, Trophime Bigot e altri, giunte a Milano da tre continenti, e a incisioni cui dovette guardare.
«Ho voluto riflettere sul contesto in cui La Tour lavorò, spiega a “Il Giornale dell’Arte” Francesca Cappelletti. Non volevo rassegnarmi a considerarlo “un meteorite”, come viene a volte definito. Ero interessata soprattutto all’elaborazione del tema notturno nell’Europa del ’600, del “quadro a lume di notte”, che appartiene però non a Caravaggio, bensì alla cultura postcaravaggesca.
A inventare la scena notturna a lume di candela fu, infatti, van Honthorst, esponente della generazione di artisti stranieri che a Roma, a partire dal secondo decennio e fino agli anni ’30 del ’600, si era stordita su Caravaggio, concentrandosi sul notturno. La Tour però continuò a praticarlo fino agli anni ’50: perché? Un pittore di tale potenza espressiva, può essere considerato un epigono di Caravaggio, così tanti anni dopo? E perché continuò anche dopo il soggiorno a Parigi, dove conobbe l’opera di Poussin e di Vouet?
Credo che il suo concentrarsi su pochi soggetti, ripetendoli, poi, anche a distanza di molti anni, sia la prova del suo continuo riflettere sulla pittura. Purtroppo però il problema della formazione e dei contatti successivi rimane insoluto». Come senza risposta resta la domanda sul possibile viaggio in Italia: alcuni studiosi (come Jean-Pierre Cuzin e Gianni Papi, in catalogo) sono convinti che lo abbia compiuto, altri (come la curatrice e Dimitri Salmon) ne dubitano.
Ma un altro quesito stimolante è offerto dalla duplice «natura» dei suoi dipinti: quelli diurni, con scene di taverna e figure di mendicanti «da modello» («sempre con una certa cautela dovremmo parlare di realismo o naturalismo, termini ambigui per il ’600», precisa la Cappelletti), le cui fisionomie sono scandagliate brutalmente, e i notturni, «in cui La Tour lavora per sottrazione: spariscono prima gli oggetti, poi la definizione dei volti e restano i soli volumi (del “San Giovanni” di Vic-sur-Seilles è stato detto che “sta sui bordi del nulla”). Un’ambivalenza questa che, come rammenta Pierre Rosenberg, nella mostra all’Orangerie di Parigi del 1972 sconcertò i visitatori, che sospettarono si trattasse di due pittori diversi».
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