Julie Mehretu ha spesso descritto i propri dipinti come «mappe di non luoghi». In effetti, le enormi tele della pittrice americana, nata nel 1970 ad Addis Abeba e residente a New York, evocano paesaggi urbani e vedute architettoniche di città immaginarie o, per la precisione, assemblaggi fittizi di metropoli reali: il Cairo, Mosca, New York.
In occasione della sua grande retrospettiva mid-career, organizzata in collaborazione con il Lacma di Los Angeles, fino all’8 agosto Julie Mehretu occupa il quinto piano del Whitney Museum con quaranta lavori su carta e trentacinque dipinti realizzati dal 1996 a oggi.
La mostra, il cui allestimento segue un andamento vagamente cronologico, comincia con i primi lavori, quelli di metà anni Novanta, in cui l’artista sviluppa un originale vocabolario visuale fatto di segni come punti, cerchi e frecce, e forme organiche come ali, occhi e insetti: un cast di ambigui e inusuali «personaggi» di cui Mehretu si serve per suggerire l’idea di masse in movimento e sciami migratori.
Per poi passare ai dipinti dei primi anni Duemila, forse i suoi più celebri, in cui le prospettive, i piani e le stratificazioni si moltiplicano per raffigurare l’idea di Metropoli contemporanea, multiculturale e in perenne movimento. Fra questi, «Transcending: The New International» (2003), che visualizza, ma oscura allo stesso tempo, i luoghi della guerra civile in Etiopia: un riferimento alla biografia personale dell’artista, la cui famiglia si trasferì in Michigan per sfuggire alla Rivoluzione nel 1977.
Il culmine del progetto espositivo è forse rappresentato dai lavori più recenti, che riflettono eventi contemporanei: gli incendi in California e Myanmar e l’assassinio di Michael Brown da parte della polizia, a partire da fotografie alterate digitalmente e poi marchiate dalle pennellate dell’artista. Chiude la mostra un film sulla Mehretu diretto dall’artista britannica Tacita Dean.