Una fotografia esposta nella mostra «Inhabitants» di Raymond Meeks alla Fondation Henri Cartier-Bresson di Parigi

© Raymond Meeks

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Una fotografia esposta nella mostra «Inhabitants» di Raymond Meeks alla Fondation Henri Cartier-Bresson di Parigi

© Raymond Meeks

La memoria dei luoghi nelle fotografie di Meeks

Alla Fondation Henri Cartier-Bresson di Parigi, un viaggio nei territori di confine francesi dove i flussi migratori lasciano le tracce del loro passaggio

Raymond Meeks (Ohio, 1963) indaga spesso la memoria dei luoghi, l’appartenenza, filosofica e astratta, dell’individuo al paesaggio. La sua estetica si compone di una consistente dimensione di latenza che si manifesta, nella maggior parte dei casi, come tasselli di un puzzle che rimane perennemente in essere. Così è stato anche per il progetto «Inhabitants», un dialogo tra le sue immagini e un testo dello scrittore George Weld, vincitore del programma Immersion della Fondation d’entreprise Hermès, diventato prima libro, pubblicato nell’agosto del 2023 dall’editore Mack, e ora esposto alla Fondation Henri Cartier-Bresson di Parigi, a cura di Clément Chéroux, fino al 5 gennaio 2025

Per la sua realizzazione, Meeks ha passato molto tempo a documentare due specifiche zone della Francia, a sud, al confine con la Spagna, e a nord, nella città di Calais: zone di passaggio da parte di flussi migratori di uomini, donne e bambini che scappano dai loro paesi d’origine per trovare salvezza. Come è solito fare, il fotografo americano ha raccontato questi luoghi e le persone che li attraversano non come un semplice reportage, ma mostrandone solo le tracce, le prove del loro passaggio, come resti archeologici colti all’interno del paesaggio. Le sue immagini, effettivamente, non mostrano qualcosa di definitivo, volti trasfigurati dalla stanchezza o dal dolore, né tanto meno le modalità effettive con cui una città e un territorio modificano il proprio assetto per rendersi «sistemazione d’emergenza» per qualcuno che non ha più casa né, magari, affetti.

No, le immagini di «Inhabitants» danno volto allo stato psicologico che investe tali realtà «abitative», una tensione palpabile creata con filo spinato, giacigli improvvisati, cataste di rami, chiodi che spuntano misteriosamente in ogni dove, grate e recinti che delimitano lo spazio e fungono da muraglie cinesi. Tutto per non accogliere, dignitosamente e umanamente, il flusso apolide che arriva da fuori. Meeks, però, non si lascia trasportare dai pietismi visivi. Evoca, invece, quello stato di allerta e pericolo che rende sospesa l’esistenza umana dei rifugiati, apparentemente senza diritti, né identità. Ma, ad equilibrare la tensione visiva, tra le immagini di «Inhabitants», compare spesso anche l’elemento dell’acqua, di fiumi o mari indistintamente. Il flusso delle acque, come il flusso migratorio che si muove, cambia, scorre, lasciando dietro di sé solo le tracce del proprio procedere. E per l’appunto l’intento di Meeks è stato proprio quello di mostrare tali impronte, di trasmettere l’esistenza di chi era già proceduto avanti.

Le immagini oscure e inquietanti di «Inhabitants» producono un effetto di estraneità in chi le osserva, atto, probabilmente, voluto dal fotografo americano come forma di empatia nei confronti di chi quei luoghi li aveva vissuti con le stesse tensioni emotive. Tale partecipazione, che dal visivo deborda all’emotivo, è l’arma vincente del lavoro di Raymond Meeks, che è riuscito a raccontare una storia sentitamente contingente e attuale, oltre che necessaria.

Una fotografia esposta nella mostra «Inhabitants» di Raymond Meeks alla Fondation Henri Cartier-Bresson di Parigi. © Raymond Meeks

Francesca Orsi, 07 ottobre 2024 | © Riproduzione riservata

La memoria dei luoghi nelle fotografie di Meeks | Francesca Orsi

La memoria dei luoghi nelle fotografie di Meeks | Francesca Orsi