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Walter Guadagnini
Leggi i suoi articoli«Ho iniziato a fotografare per conoscere le persone com’erano», dice Nino Migliori. Così ha incontrato Morandi e Peggy Guggenheim ed è diventato un maestro del Neorealismo senza mai dimenticare la sperimentazione
Lo studio è in via Elio Bernardi a Santa Viola, quartiere popolare di Bologna, che negli ultimi tempi si sta trasformando in un polo culturale: a poche centinaia di metri si trovano infatti l’Opificio Golinelli e il Mast, due centri culturali che ridanno fiato al panorama espositivo cittadino. E proprio dal Mast parte la nostra conversazione con Nino Migliori, 90 anni da compiere il 29 settembre e una miriade di progetti ancora in corso: «Al Mast ho fatto una delle esperienze più esaltanti degli ultimi anni, ho approntato un laboratorio con i bambini che frequentano il nido lì, ho insegnato loro a usare tutte le tecniche off camera, abbiamo realizzato un’opera gigantesca. Ma la cosa più importante è quello che i bambini ti danno dal punto di vista della libertà, della mancanza di freni alla creatività, è quello che ho cercato per tutta la vita».
Lei ha cominciato dopo la guerra ed è diventato uno dei maggiori rappresentanti del Neorealismo fotografico italiano.
Ho iniziato a fotografare perché questo mi permetteva di incontrare e di conoscere le persone. Deve immaginare com’era la situazione a Bologna e in Italia subito dopo la guerra, un Paese distrutto. È stata la voglia di ricominciare a vivere raccontando le persone com’erano veramente, fuori dalle retoriche, anche da quelle della fotografia.
E dove si mostravano queste fotografie?
Attraverso i circoli fotografici si mandavano le fotografie ai concorsi e lì una giuria decideva se eri un bravo fotografo o no. Dopo un po’ mi sono reso conto che era un mondo chiuso, legato alle tradizioni della fotografia amatoriale. Io avevo cominciato le mie sperimentazioni: mandavo quattro fotografie, tre di soggetto tradizionale e una «astratta». Le prime tre venivano selezionate, la quarta regolarmente scartata. Erano invece apprezzate dagli amici artisti d’avanguardia. Allora ho cominciato a frequentare sempre più il mondo degli artisti.
Bologna negli anni ’50 era una città vivace. E c’era Morandi.
Sì, naturalmente ho fatto delle foto anche a Morandi: l’ho frequentato per un certo periodo. Conoscendo le mie modeste condizioni economiche, si offrì di far sviluppare i rullini e stampare i provini e mi disse anche: «La prossima volta che verrai ti regalerò una mia cosina». Ma siccome io non volevo che lui pensasse che sarei tornato solo per avere il suo regalo, decisi di non ripresentarmi, così non ho mai più avuto notizie delle mie foto. Un altro luogo che frequentavo era Venezia.
Alla Fondazione Guggenheim si vedono ancora appesi dei suoi ritratti di Peggy...
A Venezia frequentavo Emilio Vedova e Tancredi. Con loro ho trascorso giornate, e nottate, indimenticabili. È stato Vedova a introdurmi a Peggy: ricordo ancora benissimo la notte in cui rimanemmo tutti per delle ore a guardare una tela che le era appena arrivata dagli Stati Uniti: era il primo Pollock che vedevo dal vero. Grazie a quelle frequentazioni si è rafforzata la mia ricerca sulla sperimentazione dei materiali e delle tecniche che ho continuato per tutta la vita.
Ma come arrivava a fine mese?
Non ho mai vissuto di fotografia. Per me la fotografia significa libertà, non avrei mai potuto lavorare su commissione o con l’ansia di dover fare qualcosa per guadagnare. È stato grazie a questa scelta che ho potuto fare tutto ciò che ho fatto e che continuo a fare. Andai a Parigi e riuscii ad avere un colloquio con Cartier-Bresson, e gli mostrai una cartelletta con fotografie del cosiddetto Neorealismo. Lui le apprezzò e mi propose una possibile collaborazione con l’Agenzia Magnum. Quando fece riferimento alle condizioni economiche rimasi ammutolito poiché si trattava di retribuzioni dilatate in periodi molto lunghi. Ringraziai e rifiutai, perché avendo una famiglia di cinque persone da mantenere non avrei potuto permettermelo, e volevo fare le mie fotografie senza vincoli. Quanto al far veder le fotografie, sì, è stato per molti anni difficilissimo, quasi impossibile: Luigi Veronesi è stato una figura importante, poi devo ringraziare Giuseppe Turroni, uno dei pochi critici illuminati di fotografia attivi nel dopoguerra, che mi dedicò un servizio di più pagine in «Ferrania», la rivista specializzata italiana più importante di quegli anni. Da lì, anche quelle strane immagini hanno cominciato a circolare.
A questo punto dell’intervista, si iniziano a cercare le immagini di accompagnamento per l’articolo, che risultano essere incredibilmente poche, e recenti, rispetto a una storia fotografica lunga oltre mezzo secolo. «C’è una ragione, che fra l’altro incide anche sulla mia possibilità di ricostruire per intero la mia storia creativa: dalla fine degli anni ’60 avevo avuto in affitto un bellissimo appartamento in una villa di Bologna con annesso un fienile e lì avevo parte del mio archivio. Un giorno che io ero assente ci fu una gigantesca nevicata; quando rientrai in città lo studio non c’era più, era stato abbattuto perché la neve lo aveva danneggiato e c’era, disse il proprietario, il pericolo di crollo. Non riuscii mai a capire quanto fosse vero e quanto fosse una scusa per liberarsi di me... Così ho perso fotografie, negativi, libri, riviste e corrispondenza, la memoria di un pezzo non piccolo della mia vita. Fortunatamente una parte dell’archivio si trovava in un altro spazio. Ora che tutto il materiale è stato conferito alla Fondazione Nino Migliori, ci sarà chi potrà riordinarlo, cosa che io non ho mi fatto.
Lei è stato tra i primi ad avere un insegnamento di fotografia all’Università.
È stato Arturo Carlo Quintavalle a chiamarmi all’Università di Parma, al Corso di Perfezionamento in Storia dell’Arte. Avrei dovuto insegnare Storia della Fotografia, ma ritenni che la pratica val più della grammatica e così la maggior parte delle ore di insegnamento le dedicai alla realizzazione di progetti fotografici che erano legati alla storia della fotografia o che prendevano spunto da idee che lanciavo e che venivano discusse dagli studenti. In pratica anche con loro, laureati in lettere, lingue o filosofia, ho fatto come con i bambini al Mast: li ho messi a fare cose che non conoscevano, li ho indotti a lavorare, in alcuni casi a creare racconti, è stata un’esperienza davvero forte, la fotografia ha questa capacità di mettere in relazione le persone che è fantastica. Anzi, adesso venga di là che le faccio vedere una cosa.
Ci spostiamo in una grande stanza, piena di fotografie di grandi dimensioni, ben imballate. «Adesso si sieda qui, al buio, accenderò un fiammifero, glielo passerò vicino al volto, e intanto scatterò, vengono dei ritratti demoniaci, bellissimi...».
Ma è il principio di «Lumen», il suo ultimo lavoro, esposto a Modena qualche mese fa; mentre la mostra «Zooforo immaginato», con fotografie delle sculture di Antelami al Battistero di Parma riprese con questa tecnica, sarà aperta dal 23 settembre al 6 novembre al Far-Palazzo del Podestà di Rimini.
Sì, è un’idea che mi è venuta nel 2006 pensando a come vedevano le opere gli uomini quando non era stata inventata la luce elettrica. E ho deciso di fotografare una serie di capolavori a lume di candela. Soprattutto con le sculture di grande formato, hai bisogno di diverse persone che muovano le candele intanto che fotografi, e tutti si muovono in una penombra, vicino a capolavori dal valore immenso, bisogna trovar anche dei soprintendenti «illuminati», in grado di capire il senso del lavoro. Così ho fotografato il Compianto di Niccolò dell’Arca a Bologna, le metope del Duomo di Modena, adesso è il turno di Ilaria del Carretto.
A partire dagli anni ’90 il suo lavoro ha avuto un successo, anche commerciale. Che cosa pensa del mercato della fotografia e delle tirature?
Non ho mai creduto alle tirature, le trovo un tradimento della vera natura della fotografia, e prima ancora dell’incisione: una volta sulle incisioni si scriveva Tizio ha dipinto, Caio ha disegnato, Sempronio ha inciso, e basta. Sono assolutamente convinto che il fotografo onesto debba indicare tutti gli elementi che servono per identificare correttamente la fotografia quando è stata fatta, quando è stata stampata, da chi, su quale carta, formato e numero di copie fatte in quel giorno e tanto sia sufficiente per garantire la qualità e la autorialità dell’opera, tutto il resto appartiene al mercato. Adesso però stia fermo, altrimenti la brucio...
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