«Giordania: alba del cristianesimo» nel Palazzo della Cancelleria a Roma fino al 28 febbraio vuole fare luce sulla presenza cristiana in Transgiordania (così si chiamava il Paese fino al 1946) tra I e VII secolo d.C. L’iniziativa s’inserisce nelle celebrazioni per i trent’anni delle relazioni diplomatiche tra il Regno di Giordania e la Santa Sede e per i sessanta dallo storico viaggio di Paolo VI in Terrasanta (1964).
L’evento segue di pochi giorni l’inaugurazione della nuova basilica cattolica sul Giordano, là dove la tradizione colloca il Battesimo di Gesù. La corretta lettura della mostra non può prescindere da questi significati extraculturali, volendo sottolineare come anche la Transgiordania sia da considerare parte integrante della Terrasanta.
In mostra circa 90 oggetti, significativi dal punto di vista storico artistico e selezionati da 34 siti archeologici, spaziano dagli incensieri alle monete e alle sculture architettoniche, fino ad arrivare alle lucerne e ai mosaici, in particolare della regione di Madaba. Tra questi, il pavimento con due animali affrontati a un albero dalla Chiesa di San Giorgio a Khirbet al-Mukhayyat (Monte Nebo) reca la scritta «pace» in greco e in arabo. Notevole, inoltre, il rilievo in calcare che raffigura un agnello da Umm al-Rasas, località da cui provengono anche le cinque lastre in scisto (e non in marmo, come erroneamente riportato nelle didascalie e nel catalogo) del pulpito della Chiesa dei Leoni, elegantemente decorate con motivi geometrici, che riportano alla mente la figura del loro scopritore nel 1989, il compianto archeologo francescano padre Michele Piccirillo.
Di grande impatto sono anche i due vasi in vetro soffiato a guisa di pesce e la rara decorazione lignea dal Santuario di San Lot, sulla sponda del Mar Morto. Non manca, a chiusura del percorso, una riproduzione in scala ridotta del celebre mosaico pavimentale della Carta di Madaba.
La bellezza degli oggetti in mostra e dell’allestimento non trovano corrispondenza nei testi di didascalie e catalogo (le cui fotografie sono peraltro di ottimo livello), in cui si contano svariate imprecisioni dovute a un’errata traduzione dall’inglese e dall’arabo. Ma ciò non deve mettere in secondo piano la qualità del materiale esposto, rendendo giustizia agli sforzi che la Giordania sta facendo da decenni per consentire, pur tra mille difficoltà, la corretta convivenza tra cittadini di religioni differenti, facendo leva anche sul patrimonio culturale inteso come bene comune. Ne sono consapevoli i tanti archeologi stranieri, tra i quali molti italiani, impegnati qui con le loro ricerche e il supporto dei colleghi locali. Sono numerose, infatti, le missioni archeologiche attive proprio in un momento in cui lavorare in molti Paesi dell’area è diventato difficile, se non impossibile. Solo tenendo in considerazione tutto questo, si può comprendere appieno il reale significato della mostra, anche al di là delle imprecisioni menzionate, che nulla tolgono al profondo valore simbolico, culturale e artistico degli oggetti esposti.