Luca Beatrice
Leggi i suoi articoliDa ragazzo, era una festa quando stavano per uscire i dischi dei miei gruppi preferiti: «Dark Side of the Moon» dei Pink Floyd, «Street Legal» di Bob Dylan, «Born to Run» del Boss, ascoltavi il 33 giri dall’inizio alla fine, lato A e lato B senza interruzioni; c’era un filo rosso che accompagnava le canzoni, ti prendevi il tempo necessario con gusto, calma, godimento.
Le mostre d’arte ormai assomigliano a quei vecchi dischi: c’è un progetto, una storia, un racconto. Le mostre dicono molte cose sull’artista, a differenza delle fiere che sono come il singolo buttato su Spotify, unico scopo visualizzazioni e contatti: l’artista se la gioca con un pezzo solo, o la va o la spacca, arriva tanta gente in pochi giorni, l’opera deve piacere e via, non c’è bisogno di ulteriore supporto, ciò che vedi è ed è inutile ti vengano svelati i retroscena, se funziona si vende, altrimenti resta lì, estrapolata da un contesto che la rende parte di qualcosa di più organico.
Questo è il leitmotiv delle fiere, che infatti costituiscono il momento più atteso nella stagione dell’arte, una specie di grande Spotify dove tutto vale tutto e alla fine non capisci neppure perché. In Italia è cominciata con Art Verona e Arte in Nuvola a Roma, prosegue con Artissima a Torino, ai primi di febbraio sarà il turno della classica Arte Fiera di Bologna per poi concludersi in primavera a Milano al Miart. Un numero esorbitante di pareti riempite di cose da vendere di cui raramente resterà un segno perché andare in fiera non è come vedere una mostra, dove un’idea quantomeno te la farai. Saranno vivaci kermesse festivaliere, eppure le fiere mi piacciono sempre di meno, non riesco a trovare il filo e mi stanco a dire sempre le stesse cose. Appartengo a quella generazione che si ascoltava un disco per intero e sono contento così.
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