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Arnulf Rainer

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Addio a Arnulf Rainer, l’artista che trasformò la pittura in un atto radicale

Con la scomparsa di Arnulf Rainer, l’arte europea perde uno dei suoi protagonisti più rigorosi e inquieti: un artista per il quale dipingere non è mai stato un atto decorativo, ma una necessità radicale.

Riccardo Deni

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Arnulf Rainer è morto nella sua casa in Austria all’età di 96 anni. La notizia è stata confermata dalla galleria Thaddaeus Ropac, che lo ha rappresentato per oltre quarant’anni. Nato a Baden nel 1929, Rainer ha attraversato più di sette decenni di ricerca artistica mantenendo una tensione costante verso la sperimentazione, fino a rendere il gesto pittorico un luogo di conflitto, cancellazione e immersione spirituale. Il suo nome è indissolubilmente legato alle Übermalungen (sovrapitture), pratica avviata nei primi anni Cinquanta che ha segnato in modo irreversibile il lessico dell’arte informale europea.

A partire dal 1952, Rainer iniziò a intervenire su immagini preesistenti coprendole con strati densi e spesso violenti di colore. In questi lavori, apparentemente distruttivi ma profondamente meditativi, la pittura si fa atto di negazione e insieme di devozione: non rappresentazione, ma esperienza. Come l’artista stesso affermò, «l’atto organico del creare è forse più essenziale del dipinto finito», paragonando il processo a una pratica contemplativa. Negli anni Cinquanta e Sessanta la sua ricerca si spostò progressivamente sul corpo e sull’identità. I blind drawings, le serie delle Face Farces e delle Body Poses -autoritratti fotografici sovrapitturati con segni gestuali- mettono in crisi l’idea di soggetto unitario, trasformando il volto in campo di battaglia psichico e materico. Pur non appartenendo formalmente all’Azionismo viennese, Rainer esercitò un’influenza decisiva sulle sue origini, condividendone la radicalità e l’urgenza esistenziale.

La sua opera fu profondamente segnata dal trauma del secondo dopoguerra. Già nel 1951, con il portfolio fotografico Perspectives of Destruction, Rainer elencava le catastrofi del Novecento che sarebbero poi riemerse, sedimentate, negli strati di nero opaco e lucido delle sue sovrapitture. Lo storico dell’arte Helmut Friedel ha descritto questi lavori come una «pelle pittorica in cui la storia è conservata in sicurezza», una superficie che assorbe e trattiene la violenza del reale. A partire dalla fine degli anni Sessanta, il riconoscimento istituzionale si fece sempre più solido. Nel 1968 il Museum des 20. Jahrhunderts di Vienna (oggi Mumok) gli dedicò una prima ampia retrospettiva; seguirono le partecipazioni a Documenta nel 1972, 1977 e 1982, e mostre decisive alla Kunsthalle Bern e al Lenbachhaus di Monaco nel 1977. Nel 1978 rappresentò l’Austria alla Biennale di Venezia, anno in cui ricevette anche il Grand Austrian State Prize.

Negli anni Ottanta la sua opera entrò stabilmente nel circuito museale internazionale, con esposizioni alla Nationalgalerie di Berlino, al Centre Pompidou di Parigi, all’Abbazia di San Gregorio a Venezia e al Guggenheim Museum di New York. Parallelamente, Rainer svolse un’intensa attività didattica all’Accademia di Belle Arti di Vienna tra il 1981 e il 1995. Le sue opere sono oggi conservate nelle principali collezioni museali europee e statunitensi. Nel 2009, nella sua città natale, è stato inaugurato l’Arnulf Rainer Museum, che nel 2024 ha celebrato il suo 95° compleanno con una grande mostra monografica. In Italia le ultime esposizioni significative portano la firma della Galleria Poggiali.

Riccardo Deni, 22 dicembre 2025 | © Riproduzione riservata

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