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Watermelon, Bananas, Suzani, 2009. Oil on canvas, 50 x 50 inches

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Watermelon, Bananas, Suzani, 2009. Oil on canvas, 50 x 50 inches

Addio a Janet Fish, la pittrice che trasformò la luce in materia

Con Janet Fish scompare una delle interpreti più rigorose e liriche della sensibilità visiva del secondo Novecento. Resta la sua luce, instancabile.

Riccardo Deni

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E' scomparsa ieri, 11 dicembre, nella sua casa in Vermont Janet Fish. Aveva 87 anni. Considerata una delle figure più originali della pittura americana del secondo Novecento, Fish ha ridefinito la percezione stessa della natura morta, rendendo la luce un soggetto autonomo e vibrante. Artista appartata, rigorosa, instancabilmente fedele alla propria visione, lascia un corpus di opere che ha segnato decenni di ricerca pittorica sulla realtà, sui suoi riflessi, sulle sue trasparenze. “Una visionaria del reale”, l’aveva definita il critico Gerrit Henry: un’espressione che coglie perfettamente la potenza di un lavoro che non imitava il quotidiano, ma lo trasfigurava attraverso la fenomenologia della luce.

Fin dagli esordi, a fine anni Sessanta, Fish si impose una sfida radicale: dipingere il comportamento della luce quando attraversa il vetro, la plastica, le superfici lucide della vita domestica. Da questa indagine quasi scientifica nacquero opere che oggi riconosciamo immediatamente (bicchieri d’acqua, contenitori di miele, bottiglie di tequila o Windex) trasmutati in apparizioni luminose, caleidoscopi di rifrazioni, campi di colore pulsante. “Dipingo attraverso la pittura”, aveva detto. “Non vedo gli oggetti come separati. Vedo la luce come energia, e l’energia è un flusso continuo”.

Dalle Bermuda a Yale: la formazione di uno sguardo

Nata a Boston nel 1938, cresciuta a Bermuda, Fish attribuiva proprio a quella precoce immersione nella luce oceanica la sua sensibilità cromatica estrema. Il contesto familiare, artisticamente fertile – la madre scultrice, il nonno pittore impressionista – la indirizzò presto verso l’accademia. Dopo Smith College, fu alla Yale School of Art che maturò la sua identità, studiando accanto a Chuck Close, Richard Serra, Brice Marden, Robert e Sylvia Mangold. Qui, in pieno dominio dell’Espressionismo Astratto, Fish comprese che il suo cammino sarebbe passato altrove: non attraverso il gesto, ma tramite la percezione. Decisivo fu il periodo a Skowhegan nel 1962, quando Alex Katz la orientò verso il paesaggio. Ma fu a New York, dal 1963, che la sua pittura si consolidò in relazione alle ricerche Pop, Minimaliste e del Nuovo Realismo.

Una realista non realista

Sebbene inclusa nelle mostre sul “superrealismo”, Fish non fu mai una realista in senso stretto. Le sue tele, spesso monumentali, erano composizioni costruite nel tempo, accumuli di percezioni e variazioni luministiche stratificate. Come scrisse Linda Nochlin nel 1974, Fish era una “fenomenologa pittorica”: non evocativa, non narrativa, ma pura indagine dell’esperienza visiva. Negli anni Settanta la sua ricerca si fece sempre più complessa: vetri collocati su specchi, trasparenze che inglobano porzioni di paesaggio, intrusioni dell’esterno dentro la natura morta. L’artificio e la realtà si riflettevano l’una nell’altra in un gioco di rimandi che rendeva la pittura un campo quasi musicale.

New York, il Vermont, il mondo quotidiano

Dal 1979, con il trasferimento tra Soho e il Vermont insieme all’artista Charles Parness, la sua opera si aprì al paesaggio, ai ritratti, a scene corali di vita domestica e comunitaria. Sempre però, anche nei momenti più narrativi, restava centrale l’idea che la luce fosse il vero motore compositivo. Pesche, tulipani, bottiglie, giocattoli, oggetti presi in prestito dagli amici: tutto diventava parte di un teatro luminoso in movimento. Negli anni Ottanta e Novanta, le sue tele orizzontali restituivano una visione generosa e vitale della quotidianità americana. Un realismo pieno, conviviale, mai distaccato. Dal 2009, per ragioni fisiche, Fish smise di dipingere, ma il suo lavoro continuò a circolare e influenzare generazioni di pittori che oggi tornano a interrogare la materia del reale.

Un’eredità luminosa

Rappresentata da DC Moore Gallery dal 1995, Fish è oggi presente in musei fondamentali: dal Metropolitan al Whitney, dall’Art Institute di Chicago alla National Gallery di Washington. Molto più di una pittrice di oggetti, è stata una teorizzatrice implicita della luce come forza vitale: una tensione che attraversa la realtà e la pittura, rendendole entrambe sempre mutevoli, sempre in divenire. La sua opera, in un’epoca in cui la pittura si interrogava sulla propria sopravvivenza, ha ricordato a tutti che vedere è un atto radicale.

 

Painted Water Glasses, 1974. Oil on canvas, 54 ¼ x 60 inches. Whitney Museum of American Art, New York; purchase, with funds from Susan and David Workman

Riccardo Deni, 12 dicembre 2025 | © Riproduzione riservata

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