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Uno still dal film «River of Fundament» di Matthew Barney. © Photo Chris Winget; © Matthew Barney; Courtesy Gladstone Gallery, NY and Brussels

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Uno still dal film «River of Fundament» di Matthew Barney. © Photo Chris Winget; © Matthew Barney; Courtesy Gladstone Gallery, NY and Brussels

Agli antipodi si vedono robe da Matthew

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Redazione GDA

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River of Fundament», il nuovo film di Matthew Barney (San Francisco, 1967), dura sei ore, ci sono voluti sette anni per realizzarlo e sguazza in allusioni alla mitologia dell’antico Egitto, escrementi, fluidi corporei, carcasse di animali putrefatti e stravaganti scene di sesso. La tranquilla cittadina portuale di Hobart in Tasmania non sembra quindi la location più scontata per la sua proiezione e per un’importante mostra di sculture, disegni e bozzetti realizzati durante la lavorazione del film ed esposti fino al 13 aprile al Museum of Old and New Art - Mona (la prima europea è stata alla Bayerische Staatsoper di Monaco nel marzo scorso, affiancata da una mostra all’Haus der Kunst per la cura di Okwui Enwezor). Ma per l’artista, giunto alla celebrità grazie alla serie di film «Cremaster Cycle», realizzati tra il 1994 e il 2002, accettare l’invito del collezionista australiano David Walsh nella remota località è stata una decisione semplicissima. Ecco allora che alla fine dell’anno scorso il mondo dell’arte di Sydney e Melbourne si è trovato a Hobart accanto a Barney per una proiezione nella Federation Concert Hall. Quasi tutti hanno resistito fino alla fine, corroborati anche da due intervalli. «È coinvolgente quello che sta capitando qui, ha spiegato Barney. Ho lavorato a progetti a Bahia, in Brasile, nell’isola di Man e in altri luoghi non centrali, ed è sempre stata una soddisfazione per me andare in un posto dove la forma è in un certo senso più visibile. Mi diverto a fare mostre in un luogo in cui sei libero e ciò che presentiamo si può vedere più chiaramente perché non ci sono distrazioni». La scintilla vitale di «River of Fundament» è stata Antiche sere (Ancient Evenings, Ndr), libro del 1983 dello scomparso scrittore americano Norman Mailer (1923-2007), che lo stesso Mailer aveva chiesto a Barney di leggere. I due diventarono amici durante la realizzazione del «Cremaster Cycle» e Mailer interpretò addirittura il ruolo di Houdini in uno dei film dell’artista. Antiche sere narra i miti degli antichi Egizi sulla reincarnazione e, proprio come «River of Fundament», non è propriamente un’opera facile da affrontare. Il film di Barney mescola la narrativa con le scene ricostruite della veglia funebre di Mailer, con attori come Paul Giamatti e Elaine Stritch. L’ex atleta Aimee Mullins interpreta Iside. Barney recita invece nel ruolo del «ka», ossia lo spirito, dello scrittore. In una scena memorabile, bendato e con una camicia di forza, siede al posto del passeggero in una Pontiac Firebird Trans Am. L’automobile procede da sola lungo un ponte di Detroit, in un rituale metaforico di distruzione e rinascita. Mailer è evidentemente un personaggio affascinante per Barney, ma «River of Fundament» non è un adattamento di Antiche sere, come ci ha spiegato l’artista. Piuttosto, come sottolinea lo stesso Barney, egli era interessato al modo in cui il libro di Mailer traslava l’antica mitologia egizia in una voce inesorabilmente americana: «Ho deciso quasi subito di ambientare il film in un paesaggio americano e girarlo in dialetto americano. Nel libro c’è un’“americanità” in contrasto con il linguaggio mitologico, perciò ho trovato suggestivo pensare a modi diversi di collocare la storia negli Stati Uniti». Barney ha legato il suo progetto alla storia dell’auto, fondamentale per la grande narrativa americana, e a tre veicoli simbolo che sono diventati i personaggi centrali del film: una Chrysler Imperial, la Pontiac e una Ford Crown Victoria Police Interceptor del 2001. In tre sequenze epiche girate a Los Angeles, Detroit e New York, i tre veicoli sono sottoposti a distruzione e rinascita, accompagnati dalla colonna sonora di Jonathan Bepler, brillante compositore e collaboratore dell’artista. La prima di queste scene si svolge nel 2008 a Los Angeles: la Chrysler viene incendiata e sfasciata in un concessionario. La seconda è ambientata a Detroit, dove la Pontiac «muore» in acqua: il suo «cadavere» viene ripescato dal fiume dove ha incontrato Iside (Aimee Mullins) prima di fondersi in una gigantesca fornace. Nella terza scena siamo in una banchina in secca nell’East River di New York. A queste bizzarrie scenografiche si alternano scene della veglia di Mailer nel suo appartamento di Brooklyn che, alla fine del film, viene montato su una chiatta e trasportato con un rimorchiatore lungo l’East River. Barney ammette che la sua fama nel mondo dell’arte lo ha aiutato a ottenere il permesso delle autorità per questi progetti alquanto stravaganti. A Detroit, ad esempio, ha avuto bisogno di molte autorizzazioni per lanciare la Pontiac dal ponte MacArthur, una scena girata senza l’ausilio di alcun effetto speciale. «Sì, lo abbiamo fatto per davvero, dichiara Barney. L’auto è stata fisicamente catapultata giù dal ponte con una tecnica utilizzata in aeronautica. Si tratta di un pistone ad aria che ruota a gran velocità un cavo e fa schizzare la macchina». Ci sono voluti due anni per organizzare le sequenze di Detroit. Durante le riprese, l’artista e il suo staff hanno potuto testimoniare la crisi economica di Detroit, patria spirituale dell’industria automobilistica degli Stati Uniti. «I più recenti crolli finanziari si sono verificati proprio durante la produzione del film, che per noi ha avuto un significato particolare, visto che stavamo lavorando in città». Barney si è imposto delle scadenze impossibili: a Detroit ha concentrato tre settimane di riprese in un solo giorno. «Inizi e vai avanti finché non è finito; certe cose vanno come previsto, altre no. Il mio ruolo era di essere nella stanza dei bottoni, di fronte a tutti i monitor e le cineprese e reagire a quello che succedeva. È stato simile alla ripresa di eventi sportivi, molto live, con una reazione che deve essere immediata». A Detroit stava per capitare un disastro, quando il tempo si è guastato proprio durante le riprese della scena del pozzo e la Pontiac viene fusa in una tempesta di scintille. «Abbiamo dovuto evacuare i presenti a metà della scena a causa della gran pioggia caduta che a contatto con il metallo fuso aveva creato un’umidità irrespirabile, spiega Barney. Nella fusione di metallo l’umidità è davvero un  pericolo. Crea una volatilità che intrappola le particelle di umidità sotto al metallo, l’umidità aumenta con il calore e fa esplodere il metallo, cosa che non ci è successa, ma evacuare tanta gente durante un temporale è stato difficile. La situazione era caotica. Ma le riprese si sono rivelate molto dinamiche con quelle condizioni atmosferiche». Sono state proprio le riprese dal vivo, un cambiamento rispetto alle tecniche filmiche più statiche usate nel «Cremaster Cycle», a entusiasmare Barney proprio per la loro imprevedibilità. «Penso che per me la sfida fosse la volontà di rivedere il mio modo di lavorare e provare qualcosa a cui non ero abituato, come il fatto di girare dal vivo e di avere una sola occasione per creare una scena». Alla domanda se essere «accolto con calore» dall’establishment dell’arte non abbia offuscato la sua visione, proprio mentre gli ha spianato la strada per realizzare la sua opera più d’impatto di sempre, Barney risponde: «Guardi, non sono accolto con calore, questo è certo». E su questo l’artista ha ragione. Fin dalla première alla Brooklyn Academy of Music di New York a febbraio 2014, diversi critici hanno attaccato «River of Fundament» definendolo una maratona di autocompiacimento se non una pura e semplice ribellione. Alla domanda se le critiche al suo lavoro lo ferissero, Barney ha risposto: «Penso che a questo punto le critiche siano prevedibili. L’opera è impegnativa da molti punti di vista. Mi aspettavo che avrebbe diviso il pubblico». Le sculture di Barney al Mona comprendono imponenti ammassi di automobili fuse, esposti accanto a sarcofagi e altri reperti egizi dalla collezione di Walsh. «La possibilità di esporre le mie opere accanto alla collezione egizia mi ha subito interessato, conclude Barney. Ma penso che alla fine ciò che mi ha davvero sorpreso sia stato il coinvolgimento del museo con queste opere». Il pubblico si deve preparare a divinità e nobili egizi che guadano fiumi di materiale fecale, partoriscono sul sedile posteriore, hanno il pene ricoperto da foglia d’oro e si fanno soddisfare sessualmente sotto al tavolo da pranzo con una lattuga.

Uno still dal film «River of Fundament» di Matthew Barney. © Photo Chris Winget; © Matthew Barney; Courtesy Gladstone Gallery, NY and Brussels

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Uno still dal film «River of Fundament» di Matthew Barney. © Photo Chris Winget; © Matthew Barney; Courtesy Gladstone Gallery, NY and Brussels

Redazione GDA, 13 gennaio 2015 | © Riproduzione riservata

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