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Anish Kapoor
Leggi i suoi articoliDa otto anni l’India è sotto il dominio politico del Primo Ministro Modi e del Partito Bharatiya Janata. Otto brevi anni durante i quali la società indiana è stata brutalmente trasformata in un Raj indù, secondo la concezione di Modi [con il termine «Raj britannico» si intende il regime coloniale del Regno Unito nel subcontinente indiano tra il 1858 e il 1947, Ndr]. Il Raj è stato imposto in modo spietato tramite violenza e tensioni sociali, fatte emergere dal Governo di Modi per questioni etniche e religiose. Storicamente, la sua stratificata diversità è stata la forza dell'India, soprattutto dal punto di vista culturale, ma Modi ha stimolato il risveglio del bigottismo più radicato, perlopiù antimusulmano.
Il popolo indiano non è, e non è mai stato, unitario da un punto di vista etnico o religioso. Quando è salito al potere Modi ha iniziato la sua missione cambiando tutti i libri di testo delle scuole indiane per insegnare ai giovani e agli impressionabili una versione indù della storia, la maggior parte della quale basata su palesi menzogne. È esattamente quello che hanno fatto i talebani in Afghanistan. È l’«Hindu Taliban», il talebano indù, di Modi. L’India conta quasi 200 milioni di musulmani, più di 100 milioni di indigeni e 50 milioni di cristiani, oltre a qualche milione di sikh. Non è esagerato affermare che questi popoli non indù sono ora cittadini di serie B nella loro stessa terra. Ciò può essere visto come un’estensione della pratica coloniale di divisione e vigilanza dei sistemi di classe perpetrata dai britannici.
Sarebbe corretto osservare che l'India in cui sono cresciuto era un luogo molto diverso da quello attuale. La mia generazione è stata educata in scuole che seguivano il modello coloniale, mentre quella di Modi è la prima generazione di indiani e di politici indiani a essere stata completamente formata non in lingua inglese, ma in quello che chiamiamo l’idioma Desi, o idioma indiano, con lezioni in Hindi o in una lingua regionale. Questo modello giustifica, a quanto pare, il nazionalismo reazionario, ma ignora sono le profonde questioni strutturali lasciate dal colonialismo.
Gli indiani hanno una visione gerarchica della società, rafforzata sia dal sistema delle caste sia dalle strutture coloniali. Abbiamo davanti a noi più di 600 milioni di persone che vivono in una povertà straziante, simile a quella di un campo di concentramento, che molti non riescono a vedere pur avendola davanti agli occhi. La mente indiana è stata colonizzata e ancora, a 75 anni dall’indipendenza, non riesce a liberarsi da questo giogo. La cultura indiana rafforza l’idea di gerarchia e l’ignobile regime di Modi, nonostante la sua educazione Desi, o forse proprio per questo, la considera il modo migliore per rimanere al potere.
«La libertà di espressione in India è morta»
La cultura alta in India oggi è vista come «sanscritica», cioè basata su una superiorità culturale delle caste più elevate profondamente radicata e rafforzata dalla gerarchia insita nell’eredità coloniale britannica. Gli 1,4 miliardi di persone del subcontinente indiano vivono perlopiù in villaggi di campagna, hanno una vivace vita culturale che abbraccia cibo, arte, matrimoni, festività e altro ancora. Le peculiarità regionali sono il cuore della vita culturale indiana ma, tragicamente, continuano a essere viste come secondarie rispetto al sanscrito. In ogni campo della cultura, il «folk» passa in secondo piano, negando tuttavia la capacità d’inventiva del nostro popolo. Il regime indù di Modi sfutta la struttura gerarchica per imporre il proprio dominio, affermando la superiorità sanscritica sotto forma di gerarchia indù.
Storicamente la struttura della musica classica indiana si è formata grazie all’influenza islamica dei mongoli musulmani e dei loro eredi, giunti in India a partire dal XIII secolo. A causa dei profondi sentimenti antislamici generati da Modi e dai suoi compatrioti fascisti, la musica classica indiana è ora in profonda crisi. I musicisti classici musulmani sono cauti, e devono esserlo, a causa della loro eredità islamica. Come può questo incoraggiare l’estro e la creatività richiesti dalla tradizione? Sono finiti i tempi di musicisti famosi come Ali Akbar Khan e Vilayat Khan, ora siamo in un’epoca di paura addomesticata.
Un tempo l’industria cinematografica indiana era ricca di storie di avventura e audacia con una voce originale che teneva testa a Hollywood: Bollywood aveva un seguito di milioni di persone in tutto il Paese e nel mondo. Ora, grazie alla combinazione tra il nazionalismo indù imposto da Modi e la larga spinta al capitale imposta dai suoi amici miliardari, la creatività ha abbandonato il cinema indiano. Persino il cinema regionale, che un tempo era una forza vitale, è in crisi. Gli appassionati sono costretti ad alzarsi in piedi e cantare l’inno nazionale prima di ogni proiezione. Se un film non è espressione del nazionalismo indiano, viene trattato con sufficienza, o peggio. Se questo non è un lavaggio del cervello ideologico in stile nazista, non so cosa sia.
Anche le arti visive sono in profonda crisi in India. Quando guardo a ciò che fanno i miei colleghi nel Paese, vedo ben poco che osi sfidare il sistema. Gli artisti hanno paura e l’autocensura sembra essere l’atteggiamento più diffuso. Gli artisti che fanno qualcosa di rischioso, come dipingere il corpo nudo, non possono esporre le loro opere a causa della forza reazionaria dell’ultranazionalismo. Ciò si traduce nella chiusura di mostre, in false accuse di «Me Too», in controlli finanziari e, soprattutto, in arresti per attività cosiddette anti-indiane.
Prima della salita al potere di Modi, l’artista M.F. Hussain è dovuto fuggire dalla sua India natale perché, da musulmano, aveva osato dipingere dee indù. Le cause giudiziarie intentate dalle forze ultranazionaliste del governo lo hanno costretto all’esilio, prima a Dubai e poi a Londra. Questo timore è ancora presente negli artisti di oggi. La colpa è dell’attuale ripugnante regime e della paura che genera e mantiene in vita attraverso l’intimidazione. Oggi in India la libertà di espressione è morta.
Anche il giornalismo indiano è minacciato a tutti i livelli. I giornalisti vengono arrestati insieme agli editori, intimiditi regolarmente per attività «non indiane» o semplicemente per aver criticato il governo e portato alla luce la sua corruzione. A settantacinque anni dall’indipendenza, assistiamo all’affermazione del nazionalismo indù in molte forme: i più poveri tra i poveri sono costretti a comprare bandiere indiane prima di poter ricevere il grano gratuito che gli spetta di diritto. Vediamo l’immagine di Modi su tutti i certificati di vaccinazione Covid, mentre lui si attribuisce pomposamente tutti i meriti. In tutta l’India ci sono effigi di Modi con la mano destra alzata, nella posa del dio indù Vishnu. Pensa forse di elargire benevolenza?
Questo ridicolo indottrinamento è ciò che abbiamo accettato come nostra sorte. Non dice bene dello spirito che l’indipendenza dovrebbe suscitare nel popolo della più grande democrazia del mondo. Lo spirito indiano è intrappolato tra l’eredità del suo passato coloniale e divisivo e questo attuale, odioso regime.

Il primo ministro indiano, Narendra Modi
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