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Arcangelo Sassolino davanti alla sua opera «Tempo piegato»

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Arcangelo Sassolino davanti alla sua opera «Tempo piegato»

Arcangelo Sassolino: «Credo che l’artista debba essere un traditore seriale di sé stesso»

«Nella mia esperienza ogni quattro anni c’è un cambio di passo. Si esaurisce una stagione e ne inizia un’altra»: incontro con lo scultore vicentino che il primo giugno sarà all'Università di Malta per parlare con Keith Sciberras di «sculture come metafore della vita»

Sergio Buttiglieri, Ilaria Bernardi

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Il primo giugno nel campus dell’Università di Malta a Valletta Arcangelo Sassolino terrà una conversazione con Keith Sciberras dal titolo «Sconfinamenti. Conflicts and the unresolved border. Sculptures as metaphors of life». Keith Sciberras, esperto di arte barocca e di Caravaggio, è stato cocuratore del Padiglione di Malta a Venezia, realizzato da Arcangelo Sassolino per la Biennale d’Arte 2022, magnifico omaggio alle atmosfere del dipinto «La decollazione di san Giovanni Battista» che il Merisi realizzò proprio a Malta. Questo dialogo sarà una ottima occasione per approfondire l’inimitabile poetica dell’artista vicentino (1967) che lui sintetizza con «ho un sentimento del perimetro che non si risolve». Lo abbiamo incontrato alla vigilia dell’appuntamento maltese.

 

Arcangelo Sassolino, può raccontarci la sua formazione?

Ho un percorso sicuramente non molto canonico. Mi ricordo che da sempre, fin da bambino, andavo nel garage di casa e lavoravo con le mani. La gioia di incontrare i materiali e pensare al mondo in forma tridimensionale mi pervadeva. Io non disegno mai, penso alle cose come a un fluido tridimensionale. Per molti anni non ho saputo che cosa farmene di questo modo di guardare le cose. Questo mio rapporto col mondo ha poi seguito un percorso inusuale. A un certo punto mi sono iscritto a ingegneria meccanica a Padova, ma nel frattempo volevo brevettare un nuovo freno per le macchine o un giocattolo. Ho brevettato il secondo. È stata la mia fortuna perché lo mandai negli Stati Uniti e da lì nacque la possibilità di fare uno stage a New York con un’agenzia specializzata in giochi e giocattoli. Lo stage sarebbe dovuto durare tre mesi e, invece, rimasi quasi sei anni. Dopo un paio d’anni che ero a New York andai alla retrospettiva di Matisse al MoMA e quella mostra cambiò letteralmente la mia vita. Tutto divenne chiaro. Una settimana dopo mi iscrissi alla School of Visual Arts. E quello è stato l’inizio.

Per quale aspetto in particolare la colpì la mostra di Matisse?

La retrospettiva era fantastica. Nelle ultime stanze c’erano i suoi «Cut-outs», quelli che l’artista ormai anziano realizzava quando non riusciva più a dipingere. Tagliava con le forbici fogli di carta colorata e ne faceva dei collage straordinari. Sembrano quasi ingenui da quanto visionari sono. Lì ho capito come l’arte ti porta a sconfinare da quei modi precostituiti di vedere il mondo. Il suo era un inno, totalmente libero, alla gioia di immaginare e fare. Il suo gesto artistico, in quel momento della mia vita, fu la lezione ideale. Tutto quel tempo che avevo passato a lavorare con le mani e a cui non sapevo dare un nome era fare arte. Fu veramente una folgorazione e capii che la scultura sarebbe stata la mia strada. Per un periodo ho lavorato nell’agenzia di giocattoli e contemporaneamente frequentavo l’Accademia fino a quando ho deciso di dedicarmi solo al mio impegno nell’arte. Sono tornato in Italia e ho vissuto per un paio d’anni tra Pietrasanta e Carrara per lavorare il marmo. In qualche modo mi sono riappropriato di quella classicità che abbiamo in Italia e che è più difficile da trovare in un’Accademia americana.

Nel suo lavoro si notano varie e differenti fasi di ricerca. Come si potrebbero definire questi diversi capitoli della sua poetica artistica?

Nella mia esperienza ogni quattro anni c’è un cambio di passo. Si esaurisce una stagione e ne inizia un’altra. Credo che l’artista debba essere un traditore seriale di sé stesso. I propri lavori, dopo un po’, possono diventare una zavorra da cui bisogna svincolarsi in continuazione. Per questo ho bisogno di andare avanti, continuo sempre a fare ricerca, continuo a sperimentare, vado sempre volentieri incontro alla scoperta di nuove possibilità.

Nel 2006 ha realizzato un lavoro iconico per la Galleria Galica di Milano. Ce lo descrive?

In quell’occasione ho versato direttamente sul pavimento della galleria una colata di calcestruzzo armato di 4 metri di lato, spessa 20 centimetri. Una volta rappreso il calcestruzzo, abbiamo sollevato da un lato la lastra/calco e l’abbiamo tenuta puntellata a circa 45 gradi. A sostenerla era un solo perno d’acciaio che avevo fatto calcolare dall’ingegnere il più sottile possibile. Volevo dare la sensazione di precarietà e pericolo. S’intitolava «Momento», perché il momento in fisica è il calcolo matematico per capire le forze che agiscono dentro ai materiali. Quella fatica invisibile a cui sono soggetti i materiali che costituiscono strutture portanti, come può essere un ponte o un’ala di un aereo, quel concetto che viene definito «il peso non dorme mai», a me ha sempre intrigato da matti. Mettere in scena quello sforzo reale dei materiali in forma di trappola per chi ci passava sotto mi pareva una cosa che avrebbe fatto riflettere. Pensavo di espugnare Milano, e invece fu un flop totale. Sei mesi dopo, però, cominciai a fare macchine. Avevo capito che per rendere visibile quello che avevo in testa bisognava portare a galla la silenziosa drammaticità dei materiali in modo più esplicito.

Quindi ha cominciato a ideare ed eseguire quelle che potremmo definire «performance inorganiche». Potrebbe spiegarci meglio di che cosa si tratta?

Sì, all’inizio ho cominciato a realizzare sculture con dei componenti meccanici come, ad esempio, il braccio di un’escavatrice o quello che in gergo industriale chiamano il ragno. In questo secondo caso si tratta di un attrezzo che serve ad attanagliare qualsiasi tipo di materiale, ma una volta che è svincolato dalla meccanica della madre macchina e posto su un pavimento di cemento, la sua funzione di afferrare e stringere diventa inutile perché non riesce a far presa sul piano. Il suo tentativo si trasforma in un lento e patetico balletto che vanifica la sua funzione originaria e la sua forza. Mark Rothko diceva che nel piano c’è la verità, e io credo molto a questa sua affermazione... Il braccio dell’escavatrice l’ho modificato e realizzato qualche anno dopo. S’intitola «Elisa» e la sua conformazione le permette di continuare a disegnare sempre nuove forme nello spazio perché i tre pistoni che la gestiscono hanno corse e alesaggi diversi. Questo lento, pesante ma inesorabile movimento che grava sul suolo fa sì che con il passare dei giorni distrugga e divori lentamente il proprio basamento. Quello della base è un concetto che m’interessa tantissimo. Nei secoli la scultura si è evoluta anche intorno al concetto di piedistallo, pensi solo nel Novecento ai diversi approcci che hanno avuto artisti come Brâncusi, Manzoni o Carl Andre. Qualsiasi tipo di superficie su cui una scultura è appoggiata la diamo per scontata. Volevo mettere in discussione questo elemento e, per questo, ho pensato a una scultura che consumasse la propria base e via via sprofondasse dentro il terreno. Una sorta di demonumentalizzazione della scultura, come se fosse un corpo vivente che in qualche modo mette in discussione ciò su cui poggia. Non è l’autodistruzione della scultura di Tinguely: nel mio caso la scultura resta integra, ma compie comunque un autosabotaggio. «Elisa» è stata mostrata solo due volte: una prima volta a Zurigo e poi a Palermo su invito della Fondazione Falcone, in occasione del 30mo anniversario delle infami stragi di Capaci e di via d’Amelio.

 

 

 

 

«Elisa» di Arcangelo Sassolino allestita ai Quattro Canti di Palermo in occasione del trentennale delle stragi di Capaci e di via D’Amelio

L’uso del legno nella sua opera è ricorrente. Perché la scelta di questo materiale e quale valore simbolico-concettuale gli attribuisce?

Siamo in un momento in cui la scienza, la fisica, la medicina, cercano di scoprire sempre più a fondo l’interno delle molecole, vanno dentro al Dna. Allo stesso modo andare dentro alle fibre della sostanza, indagare il materiale dal suo interno, è per me una possibilità nuova per la scultura. Nello specifico del lavoro con la trave di legno anziché destinare quel legno a un qualche tetto di una villetta in montagna, mi piace pensare che sottoponendolo alla spinta micidiale di un pistone idraulico abbia, sebbene morto, un’ultima possibilità di «cantare».

In effetti il suono è una componente importante, spesso intrinseca alle sue sculture. Come lo fa percepire agli spettatori?

Il suono è importantissimo in alcuni dei miei lavori, ma non è la prima cosa che cerco. È chiaro che quando agisci in un certo modo su un materiale, applichi certe azioni, sai già che automaticamente ne uscirà qualcosa. Lo accetto a prescindere, lascio che diventi parte del lavoro. Quando abbiamo presentato il pistone negli Stati Uniti, avevano portato al museo dei ceppi di legno di pioppo appena tagliato. Quando il pistone cominciava a spingere contro la trave, oltre al suono prodotto dal cedimento delle fibre, la trave letteralmente piangeva, la pressione esercitata sul legno faceva rilasciare la linfa e tutta l’acqua che aveva dentro. Vedendo questo pianto, ho avuto l’ispirazione per un altro lavoro. Lavorando scopri.

Lei vive e lavora in Veneto, a Trissino. Perché questa scelta, in un certo senso controcorrente al «diktat» per gli artisti di trasferirsi all’estero o comunque nelle grandi città per avere più possibilità, visibilità e contatti?

Il territorio dove lavoro per me è fondamentale per due ragioni. La prima è di carattere estetico. Nella zona in cui lavoro vige un totale delirio urbanistico, ha preso il sopravvento su qualsiasi forma di pianificazione un’anarchia creativa dominante che ha massacrato il territorio. Un fluire di capannoni e case di ogni genere, forma e colore punteggiati da segnaletica e cartellonista pop assurda, rotonde dai contenuti improbabili, lavori in corso ovunque a singhiozzo. Il bello è spesso mimetizzato dalla frenesia di qualche geometra locale. È quella che mi piace chiamare un’estetica a schegge che si confà molto alla mia ricerca. Per me è un humus ideale per creare i miei lavori. Il secondo motivo che mi lega al territorio è dovuto a un’esigenza tecnologia data dalla mia ricerca. Il territorio è costellato da una quantità straordinaria di aziende che sono eccellenze in tutto il mondo per la qualità dei loro prodotti nei settori più svariati. In altre parole posso trovare tutto quello di cui ho bisogno. A volte mi chiedono perché non ho uno studio a Berlino e io rispondo che quando esco dal mio studio nel giro di 100 metri trovo tre tagli laser e cinque tornerie di precisione, a Berlino dovrei guidare almeno un’ora.

Ci parli della scultura «Damnatio Memoriae»...

Mi affascina come tutto sia risolto dentro a un confine di forma e materia isolato dallo spazio che lo contiene. Tutte le sculture in genere hanno un confine netto con l’impalpabile che le circonda, che è l’aria. «Damnatio Memoriae» è una scultura che trasforma in polvere un’altra scultura; con questo lavoro mi interessava in qualche modo fondere il marmo con lo spazio, parcellizzando la materia nell’aria. Mi interessava lo sconfinamento della forma. Era un tentativo di impregnare lo spazio di materia. Poi, in una nota più poetica, mi piaceva l’idea che aprendo la finestra, basta una piccola corrente d’aria per portarsi via quello che prima era immagine, forma e solida materia.

Come è nata la sua apprezzatissima collaborazione con il Padiglione di Malta all’Arsenale della Biennale d’Arte di Venezia del 2022, che per molti è risultata tra le opere più belle proposte dai Padiglioni nazionali?

L’installazione che avevo creato per il Padiglione di Malta è nata da un felice dialogo fra me e i curatori del Padiglione, Jeffrey Uslip e Keith Sciberras, esperto di Caravaggio. Partendo dal capolavoro di Caravaggio, la «Decollazione di san Giovanni Battista» del 1608, conservata nell’Oratorio della Concattedrale di San Giovanni a Valletta abbiamo fatto questa relazione fra geografia e storia. Quello è diventato l’aggancio per la mia installazione per il Padiglione. A me interessava fondere l’acciaio, che per me è la spina dorsale delle nostre vite. Quello che cerco di catturare è l’istante del cambiamento di stato, l’attimo in cui qualcosa sta diventando qualcos’altro. L’idea che mi ha mosso è stata quella di liberare il metallo da quella forma chiusa, di portarne a esposizione la sua origine liquida, impalpabile, luminosa. Sciogliendolo, il metallo non è più solo e semplicemente un presente statico, non è più solo qualcosa che c’è e che in questo esserci rimane identico a sé stesso, ma si fa tempo, si dilata dentro una dimensione cronologica di apparizione e scomparsa. Le gocce incandescenti a 1.500 gradi cadono e spariscono dentro l’oscurità, raffreddandosi dentro all’acqua. Questa impalpabilità, questa impossibilità di trattenere, questo rendere l’acciaio liquido era in qualche modo aggiungere la componente del tempo al mio lavoro. Questo tipo di luce che fa solamente il metallo quando fonde, questa luce nitida, viva, spero sia il miglior tributo al genio di Caravaggio.

«Tempo piegato» è la sua opera che il cantiere nautico Sanlorenzo ha esposto nel 2022 a Basilea, ad Art Basel. Come è avvenuta questa collaborazione?

Ho apprezzato tantissimo che Massimo Perotti, Executive Chairman di Sanlorenzo, abbia voluto esporre la mia opera nello spazio della Collectors Lounge di Art Basel, operazione che ritengo faccia parte di un coerente percorso di attenzione all’arte contemporanea, oltre che al design, che meritoriamente questa azienda navale conduce da anni. E non a caso Sanlorenzo sta aprendo a Venezia la sua sede dedicata all'arte e alla cultura, proprio a fianco della Chiesa di Santa Maria della Salute, nel percorso dei collezionisti che si estende fra Punta della Dogana e il Guggenheim. E qui esporrà nel suo museo permanente anche la mia opera «Tempo piegato». In questo periodo ha virtualmente inaugurato, durante la preview della Biennale d’Arte 2024, la sua Sanlorenzo Arts Venice esponendo sulla facciata della casa in restauro l’iconica installazione di Michelangelo Pistoletto «Third Paradise Quick Response».Per me è importante che qualsiasi mio lavoro sia in qualche modo sempre attivato, che sia portatore al suo interno di qualcosa di conflittuale anche se è in apparenza statico. Per Sanlorenzo ad Art Basel ho realizzato un vetro che è piegato al suo limite ed è tenuto curvo e compresso da una staffa di acciaio. Mi piace l’idea che vi sia un ipotetico conto alla rovescia al suo interno. Il suo reale affaticamento fa sorgere il dubbio se durerà 5, 50 o 500 anni. Inoltre da un punto di vista tecnico amo i vetri temperati, perché gli ingegneri dicono che non hanno memoria, vale a dire che se si sgancia il vetro dalla staffa che lo tiene, il vetro ritorna diritto anche fra 300 anni. In gergo si dice che il vetro temperato ha «un’anima liquida». È un concetto che mi piace tantissimo e che si allaccia alla mia ossessione con il tempo. Al mio tentativo di comprimerlo, questo tempo, dentro alla scultura.

 

Particolare dell’installazione di Arcangelo Sassolino per il Padiglione di Malta alla Biennale di Venezia del 2022. Foto Arts Council Malta

Sergio Buttiglieri, Ilaria Bernardi, 29 maggio 2024 | © Riproduzione riservata

Arcangelo Sassolino: «Credo che l’artista debba essere un traditore seriale di sé stesso» | Sergio Buttiglieri, Ilaria Bernardi

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