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Andrea Augenti
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Stavolta vediamo insieme la vita turbinosa di Heinrich Schliemann, l’uomo che è passato alla storia come lo scopritore di Troia. L’archeologo più famoso di tutti i tempi. Ecco come lui stesso racconta i suoi inizi. Schliemann nasce a Neubukow, in Germania, nel 1822. Presto la famiglia si trasferisce nel piccolo paese di Ankershagen. Le cose procedono piuttosto bene, ma nel 1829 il giovane Heinrich subisce un primo trauma: il padre prende a servizio una donna e ne fa la propria amante. Nel 1830 la madre, Louise, che ormai è arrivata al nono figlio, riesce a cacciare di casa la donna. Ma appena dopo il parto Louise muore, a soli 36 anni. Allora il vedovo, il padre di Henrich, porta di nuovo in casa la sua amante. E questo è un doppio disastro per lui: non solo ha perso la madre, ma la famiglia è diventata lo scandalo della comunità, il villaggio li emargina; lui viene mandato a vivere dallo zio, e così lascia il paese. Poi, a 14 anni, diventa garzone in una drogheria.
Schliemann ce la mette tutta, si dedica duramente al lavoro. Sta in negozio dalle 5 del mattino fino alle 23 e impara le regole del commercio. Poi, cambio di rotta: dopo un incidente sul lavoro, decide che è il momento di voltare pagina. È il 1842 e si imbarca per le Americhe, ma la nave naufraga sulle coste dell’Olanda. Si ferma ad Amsterdam, trova un impiego nel ramo dei commerci e si dedica allo studio delle lingue. Olandese, inglese, francese… e lo fa da autodidatta, secondo un metodo tutto suo. Poi impara il russo e la ditta per cui lavora lo manda a San Pietroburgo. Nel 1850 Schliemann si dirige verso gli Stati Uniti: in California, dov’è testimone dell’incendio di San Francisco, il 4 giugno del 1851, si dedica alla corsa all’oro, prestando soldi ai minatori. Nel frattempo, chiede la mano di Ekaterina Lyshin a San Pietroburgo. I due si sposano nel 1852, e lui apre un ufficio a Mosca per il commercio dell’indaco. Ma scoppia la guerra di Crimea e questa è l’occasione che fa la fortuna di Heinrich: commercia soprattutto in metalli e polvere da sparo e inizia a fare lunghi viaggi intorno al mondo, toccando tutti i continenti. Contemporaneamente torna alla sua prima passione, l’antichità: legge Omero e gli altri classici della letteratura greca.

Una sezione di Troia con il «trincerone»
Sulle tracce di Omero
Nel 1868 è un uomo ricco. Chiude i suoi affari e decide di andare in Grecia per la prima volta. Sulle tracce di Omero va a Itaca, poi prosegue per Patrasso e Atene. E proprio ad Atene viene a sapere che da poco sono stati condotti degli scavi nella Troade, la regione di Troia, e che da qualche tempo si cerca di localizzare la mitica città distrutta dagli Achei. Allora Schliemann lascia la Grecia e si sposta in Turchia. Inizialmente segue l’opinione comune degli studiosi e cioè che i resti di Troia si trovino in una località chiamata Bunarbashi, una collina piuttosto alta. Lì apre un piccolo sondaggio di scavo: non trova niente, ma fa un incontro che cambierà la sua vita. S’imbatte infatti in Frank Calvert, diplomatico britannico con la passione dell’archeologia. Calvert è una persona aperta e affabile e racconta a Schliemann le sue intuizioni. Da qualche anno si occupa di questo problema e secondo lui Troia non si può localizzare a Bunarbashi; gli indizi contrari sono troppi. Prima di tutto, indizi archeologici: sulla collina non si vedono reperti, né muri.
E Schliemann espone altri dubbi, stavolta su base filologica. Le pendici della collina sono troppo ripide perché Achille possa aver rincorso Ettore per ben tre volte intorno alle mura della città senza che i due siano caduti rovinosamente. Qui vediamo il principale metodo di Schliemann: fa una cosa che finora non aveva fatto nessuno, ovvero mette a fuoco i dettagli del testo di Omero, di un racconto mitico, potenzialmente tutto di fantasia, li considera attendibili e li verifica sul terreno. Però… c’è il diario di Schliemann. Calvert gli ha confidato dove bisogna veramente cercare Troia: sotto la collina di Hissarlik, a nord di Bunarbashi. E Schliemann scriverà nel suo diario: «Frank Calvert, il famoso archeologo, condivide con me l’opinione secondo la quale la Troia di Omero non sia altro che Hissarlik. Lui mi consiglia fortemente di scavare lì. Dice che la collina è artificiale. Mi ha mostrato la sua grande collezione di vasi e di altre antichità che ha trovato nei suoi scavi». Il gioco è fatto. Calvert è diventato semplicemente qualcuno che la pensa come lui sull’esatta localizzazione di Troia. Questa è una delle principali maniere di procedere di Schliemann: la falsificazione degli eventi a posteriori. Alcuni studiosi si sono dedicati a smontare tutto il racconto della sua infanzia e giovinezza, e hanno trovato decine di incongruenze, omissioni, invenzioni. Ad esempio, sembra che Schliemann non sia mai stato a San Francisco durante l’incendio e che sia andato via dalla California perché accusato di frode da uno dei suoi soci. E una cosa è ormai molto chiara: Schliemann non aveva avuto alcun interesse per Omero e soprattutto per Troia fino al 1868, quando viene informato del fatto che esiste una certa attenzione per l’argomento, e fino all’incontro con Calvert, che gli apre le porte di un mondo nuovo.
D’ora in poi Troia diventa un’ossessione, un’idea fissa che Schliemann fa risalire addirittura all’infanzia. Nei suoi scritti inventa una vocazione precoce che servirà a rinforzare il suo pedigree da archeologo, per non rivelare la verità: e cioè che invece lui è un assoluto autodidatta, arrivato a Troia per caso e per intuito. Calvert sprona Schliemann a scavare a Hissarlik fin dal loro primo incontro: ha capito che il tedesco possiede la disponibilità economica e la giusta dose di energia per raggiungere dei risultati. Il 9 aprile 1870 iniziano i lavori. Schliemann comincia a confrontarsi con lo scavo archeologico: apre prima delle trincee più piccole e poi il cosiddetto «trincerone»: un enorme taglio in verticale largo ben 79 metri e profondo 14, che attraversa tutta la collina di Hissarlik. È un’area di scavo gigantesca, dove è impossibile controllare l’attività di tutti gli operai. E infatti, nel corso di questo intervento viene distrutta una buona parte del sito, con danni irreparabili per la conoscenza. A Schliemann interessano soprattutto le strutture; scopre un complesso architettonico nel quale vede subito il Palazzo di Priamo e trova delle fortificazioni: la Porta Scea.

La porta dei leoni all’ingresso dell’acropoli di Micene
Nel 1873 si verifica un colpo di scena: proprio nella zona della Porta Scea Schliemann fa la sua scoperta più famosa, un tesoro di oggetti in metallo, composto di armi, gioielli, e contenitori vari. Sono 137 reperti in tutto e 8.750 elementi in oro per collane. È il famoso Tesoro di Priamo. Tra tutti gli oggetti, i più noti sono senz’altro il diadema d’oro e gli orecchini, poi passati alla storia come «I gioielli di Elena». Schliemann li fa indossare alla seconda moglie, la greca Sophia Engastromenou, per poi scattarle una foto molto famosa. Ecco il racconto del ritrovamento: «Per sottrarre il tesoro all’avidità dei miei operai e salvarlo per la scienza occorreva agire con la massima fretta (…). Mentre gli operai mangiavano e riposavano estrassi il tesoro con un grosso coltello, ciò che non fu possibile senza compiere uno sforzo enorme e senza affrontare un terribile pericolo di morte, poiché il grande muro di fortificazione che dovevo scalzare minacciava a ogni istante di rovinarmi addosso. Ma la vista di tanti oggetti, ognuno dei quali ha un valore inestimabile per la scienza, mi rendeva temerario e io non pensavo al pericolo».
In quest’occasione compie un’operazione rivoluzionaria: inventa l’immagine dell’archeologo come avventuriero disposto a mettere a rischio la sua stessa vita per portare alla luce oggetti preziosi. Ha appena creato il modello che poi verrà portato sullo schermo da Steven Spielberg con il personaggio di Indiana Jones. Anche sul Tesoro di Priamo si addensano forti dubbi: secondo alcuni sarebbe stato «inventato», assemblato dallo stesso Schliemann, accorpando dei reperti trovati in momenti diversi. Per altri invece si tratterebbe di un vero tesoro, anche se pare che Schliemann abbia impacchettato e nascosto il tutto in fretta e furia, senza registrare i reperti singolarmente come faceva in genere. Dopo Troia, Schliemann si sposta a Micene. E anche qui segue un autore antico: è il turno di Pausania. Lo storico riporta che Agamennone, al suo ritorno da Troia, era stato sepolto dentro le mura della città. Schliemann inizia a scavare proprio lì, accanto alla famosa Porta dei Leoni e scopre una serie di tombe. Molte di queste contengono, oltre ai resti umani, dei corredi funebri ricchissimi, con maschere funerarie in oro. Tra tutte spicca la cosiddetta «Maschera di Agamennone». Anche sulla maschera ci sono dei dubbi e qualcuno pensa che sia un falso. Ma alcune analisi recenti sembrano dimostrare che in realtà il reperto sarebbe autentico. E così, nel 1877, dopo gli exploit a Troia e a Micene, sempre più sulla cresta dell’onda, Schliemann va a Londra e riceve la sua consacrazione. Tiene una conferenza alla Society of Antiquaries e poi molte altre, e riscuote un successo notevole. Alcuni studiosi restano scettici, ma la maggior parte è entusiasta di lui. La sua vita è ancora lunga dopo questi episodi, che però sono i più importanti. Condurrà altri scavi, ma non riuscirà più a conquistare risultati e pubblico come a Troia e Micene. Morirà nel 1890 a Napoli per un’infezione a un orecchio. Il dibattito sulla sua figura è ancora aperto. Comunque lo si giudichi, bisogna riconoscere che è stato prima di tutto un bravissimo agente di sé stesso, puntando sul binomio letteratura antica e archeologia, gettando addirittura le basi per alcune caratteristiche della figura dell’archeologo, che poi hanno prevalso nella cultura popolare: l’archeologo come avventuriero, scopritore di città scomparse e di tesori, una specie di eroe fondatore della disciplina, pur non avendola fondata affatto. E sulla sua tomba, ad Atene, un’iscrizione recita: «A Schliemann, l’eroe».

Gli oggetti del Tesoro di Priamo scoperti da Heinrich Schliemann nel sito di Troia
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