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Un’incisione dalle Cronache di Norimberga, libro del 1493 di Hartmann Schedel

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Un’incisione dalle Cronache di Norimberga, libro del 1493 di Hartmann Schedel

Arte e religione: segnali di risveglio da un lungo torpore e distacco

Infranto un tabù: nella National Gallery di Londra, al Bode-Museum e Gemäldegalerie di Berlino, al Victoria and Albert Museum e all’Università di Londra la teologia sta rianimando l’arte e viceversa

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Anna Somers Cocks

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Attenzione: questo articolo potrebbe scioccarvi, annoiarvi, farvi infuriare. Tratta dell’argomento più di altri considerato tabù da quando nel secolo scorso la storia dell’arte si è evoluta come disciplina scientifica.

Abbiamo avuto, successivamente e talvolta simultaneamente, l’approccio positivista, la storia delle collezioni, lo strutturalismo e il post strutturalismo, gli studi di genere, il femminismo, le questioni dell’arte di persone di colore, il Lgbtqia+ eccetera. Non abbiamo però avuto «arte e teologia». Al divino non è stato concesso spazio, in parte perché gli storici dell’arte, erroneamente, hanno presupposto una conoscenza diffusa delle basi del Cristianesimo, in parte perché la religione è considerata un’irrilevante superstizione, propagata come oppio dei popoli da una Chiesa ingerente e spesso corrotta.

Ma in sordina, la religione (o, per essere più precisi, la teologia) sta emergendo in alcuni importanti musei, Università e centri di ricerca. Il Victoria & Albert Museum di Londra, ad esempio, ha lavorato per due anni con «focus group» che rappresentavano tutte le fedi e i non credenti prima di allestire e redigere le didascalie delle gallerie medievali e rinascimentali, consapevole che le opere erano per l’80% «religiose» e come tali dovevano quindi essere comprese.
Al King’s College dell’Università di Londra, Ben Quash, titolare dal 2007 della cattedra di Cristianesimo e Arti, distingue tra teologia e religione: «La teologia è la tradizione di pensiero che permette di affrontare in modo accademico le questioni legate a Dio. Se ci si chiede se sia ragionevole credere in Dio, quali idee su Dio abbiano plasmato le civiltà umane e come esse siano state espresse nella pratica, nell’etica e nella liturgia, si stanno ponendo domande teologiche e per farlo non è necessario essere credenti».

Quash ha dato vita a un progetto denominato Visual Commentary on Scripture (Vcs) per unire teologia e arte mediante la Bibbia. Gli storici dell’arte e i teologi invitati ricevono un passo dell’Antico o del Nuovo Testamento e per illustrarlo scelgono tre opere d’arte, di qualsiasi epoca. Su ognuna di esse scrivono un breve saggio di natura storico artistica, quindi uno più lungo sull’aspetto teologico che le opere incarnano. Per la maggior parte degli storici dell’arte scrivere per il Vcs significa confrontarsi per la prima volta con questa disciplina, che non significa esprimere sentimenti religiosi soggettivi, ma interpretare l’arte attraverso una conoscenza scientifica. Le opere d’arte e i commenti vengono poi caricati come «Mostre» su un sito web ben strutturato: thevcs.org. «Finora abbiamo coperto circa un terzo della Bibbia, spiega Quash, e contiamo di completare il progetto in circa cinque anni».

Tutto è iniziato 15 anni fa, quando Quash ha contattato Nicholas Penny, l’allora direttore della National Gallery di Londra, per organizzare insieme un master con un focus teologico. Penny si era convertito all’idea grazie alla mostra «Seeing Salvation», allestita dal museo londinese nel 2000. Non si trattava di un’iniziativa teologica in senso stretto, ma, come ha spiegato il curatore della mostra e allora direttore Neil MacGregor, «di un’indagine su come la figura di Cristo fosse la forma attraverso la quale gli artisti esploravano le grandi questioni della condizione umana: amore, sofferenza, speranza, disperazione e compassione». L’iniziativa però si discostava molto dalla storia dell’arte convenzionale. MacGregor ricorda che, quando la propose, i curatori più anziani e Penny si opposero all’idea nel timore che la galleria fosse tacciata di proselitismo. «E il Louvre ne rimase scioccato, ricorda MacGregor, a causa della dottrina nazionale francese della laïcité». La mostra, che non era riuscita a trovare uno sponsor, fu un enorme successo. Attirò 400mila visitatori, molti dei quali non avevano mai messo piede nel museo, a dimostrazione della forza attrattiva di un approccio all’arte più spirituale e più «rilevante» dal punto di vista personale.

Il master fu dunque istituito per generare materiale che potesse essere utilizzato dalla National Gallery per l’«educazione» del pubblico, come si può vedere oggi nell’ampia sezione del sito web del museo dedicata all’arte e alla religione. I filantropi californiani Roberta e Howard Ahmanson, che finanziano l’istruzione, la sanità pubblica, la cura dei senzatetto e molti progetti culturali, sono diventati solidi sostenitori della National Gallery (compresa l’attuale mostra su san Francesco). A loro dire, stiamo vivendo una rivoluzione simile all’invenzione della stampa nel Quattrocento, che ha completamente cambiato il modo di conoscere la Bibbia. Essendo quella di oggi un’epoca «visiva» in cui le persone comunicano sui social media attraverso le immagini, gli Ahmanson volevano un progetto online su larga scala per cambiare similmente il modo in cui leggiamo la Scrittura.

In alcuni casi, il Vcs ha portato accademici e curatori di musei a confrontarsi con la Bibbia per la prima volta, perché, come sottolinea MacGregor, l’Occidente si sta decristianizzando sempre più velocemente. Coloro che sono cresciuti con un retroterra religioso si stanno estinguendo, e al Nord delle Alpi pochissimi sono stati esposti seriamente alla tradizione cristiana. Nonostante il rapporto Pew 2018 sul Cristianesimo in Europa indichi che il 71% degli europei si identifica ancora come «cristiano», solo il 22% di questi è praticante e, senza l’impegno familiare nella religione, poco viene trasmesso alla generazione successiva. Le ragioni di questo declino sono ben note: materialismo, individualismo e la convinzione che la scienza risponda a tutte le domande importanti, per non parlare degli scandali sessuali nella Chiesa cattolica, hanno contribuito a screditare la religione. Allo stesso tempo, osserva MacGregor, dopo l’11 settembre, «ovunque nel mondo la dimensione politica dell’appartenenza religiosa si è acuita e rafforzata, il che rende le questioni piuttosto diverse da quando, alla fine degli anni ’90, stavamo progettando “Seeing Salvation” ».

È in questo contesto che gli Ahmanson hanno sostenuto Quash nella creazione di Vcs, che è stato lanciato alla Tate Modern nel 2018, in parte per dimostrare la volontà di includere l’arte contemporanea insieme a quella antica e storicizzata. Finora, sottolinea Quash, solo una piccola minoranza degli artisti contattati ha declinato l’invito a partecipare perché non vuole essere associata alla religione, ma la maggior parte si è dimostrata favorevole. Il sito ha un seguito negli Stati Uniti, nel Regno Unito, in Africa, Canada, Australia e Singapore ed è utilizzato da curatori di musei, pastori e sacerdoti, accademici e pubblico in generale.

Il mese scorso il Vcs e due dei più prestigiosi musei tedeschi, il Bode-Museum e la Gemäldegalerie di Berlino, hanno avviato una collaborazione per una serie intitolata «Unlocking Christian Art», composta di 13 film su Gesù e Maria, e altri in arrivo in autunno su profeti, angeli, patriarchi, evangelisti e così via. L’altra serie, «Interfaith Discussions», si serve delle opere delle collezioni museali per illustrare il rapporto tra Cristianesimo, Islam ed Ebraismo, le cosiddette «religioni abramitiche». I berlinesi apprezzano particolarmente queste spiegazioni perché molti sono cresciuti sotto il comunismo senza alcun contatto con la religione, mentre altri sono migranti, arrivati dalla Turchia o dalla Siria.

«Il commento visivo alle Scritture è un esercizio di immaginazione per leggere la Bibbia come la leggono le persone religiose, ma anche per vedere come l’arte può far rivivere i testi e le questioni di fede senza che si debba essere religiosi. Uno dei grandi problemi dei nostri giorni è che le persone temono di non poter mostrare interesse per tali questioni senza che qualcuno cerchi di farli associare a una Chiesa, o che sembrino avere un interesse malsano per qualcosa che è ritenuto socialmente riprovevole o imbarazzante. Ciò che trovo più incoraggiante, aggiunge Quash, è che i curatori più progressisti e coraggiosi sono disposti a confrontarsi con la religione, mentre quelli che pensano che sia pericolosa o da evitare sono i più retrogradi».

© Walters Art Museum, Baltimora

© Collezione privata/AF Fotografie

L’arca come un vero cantiere medievale

«Fatti un'arca di legno di cipresso; dividerai l’arca in scompartimenti e la spalmerai di bitume dentro e fuori. [...]. Farai nell'arca un tetto e a un cubito più sopra la terminerai; da un lato metterai la porta dell'arca. La farai a piani: inferiore, medio e superiore». (Genesi 6:14, 16)
La xilografia qui illustrata, a differenza di quanti oggi prendono alla lettera le parole bibliche, non si attiene alle istruzioni fornite da Dio per la costuzione dell’arca. Sì, l’arca ha tre piani, ma è una cocca standard come quelle che in tutto il Medioevo navigavano nel Mare del Nord, non un’enorme nave lunga 160 metri, che è ciò che si ottiene se si moltiplica per 300 la lunghezza del cubito egiziano, 53 cm. Questa immagine è una delle 1.809 prodotte da Michael Wolgemut e Wilhelm Pleydenwurff per la Schedelsche Weltchronik (Liber Chronicarum), pubblicata a Norimberga nel 1493. Noè, vestito da ricco mercante di Norimberga dell’epoca, dirige i lavori, con artigiani che presumibilmente non sanno che stanno per morire.

La sovrastruttura è opportunamente etichettata. Il vano centrale del tetto è l’abitazione di Noè e della sua famiglia, con gli animali ai lati. La finestra al centro del ponte successivo è la «Stercoraria», per spalare il letame ecc. Le due farmacie ai lati, di erbe e di parti di animali, furono probabilmente volute dall’autore del Liber Chronicarum, Hartmann Schedel (1440-1514), che era dottore in medicina. Non si tratta tanto di un’immagine religiosa quanto di un’illustrazione (all’interno di una storia del mondo) di una vicenda così familiare e domestica che l’artista poteva raffigurarla come un cantiere navale contemporaneo, riguardante la carpenteria tanto quanto la storia della Bibbia. L’artista accenna al resto della storia raffigurando in alto a destra la colomba con il ramoscello nel becco, che arriva in anticipo. L’immagine nasce dallo stesso contesto delle opere teatrali tardomedievali, satiriche ma moraleggianti, basate su storie dell’Antico e del Nuovo Testamento, con personaggi-tipo come la moglie caparbia di Noè, che si rifiuta di salire sull’arca perché preferisce bere con le sue amiche. Inutile dire che gli uomini hanno la meglio: i figli di Noè la trascinano nell’arca e le pettegole annegano.

Nel «Diluvio» di Bassano l’Aretino e la Riforma

Questa è una scena di disperazione, di persone e animali che cercano di salvarsi. Ma sono tutti condannati. L’arca si intravede a malapena sulla destra nel buio tempestoso (tanto più cupo perché il dipinto nel tempo si è degradato). Un cavaliere sta galoppando verso l’arca, ma non è Noè. È possibile che l’uomo che emerge dalla casa sia il nostro eroe, ma la sua famiglia e le coppie di animali non si vedono da nessuna parte. Forse il Signore li ha già chiusi nell’arca. Come la miniatura di William de Brailes del 1250, si tratta dell’orrore del diluvio stesso. Negli anni ’60 del Cinquecento, Jacopo Bassano (ca 1510-92) iniziò a dipingere sempre più soggetti dell’Antico Testamento sotto l’influenza delle idee della Riforma.

Si stava infatti verificando un enorme cambiamento nelle pratiche religiose dell’Europa, poiché i laici sfidavano l’autorità della Chiesa di Roma e chiedevano di poter accedere al Nuovo Testamento, e soprattutto all’Antico Testamento, in una lingua che potessero comprendere anziché in latino, conosciuto quasi esclusivamente dal clero. La reazione della Chiesa cattolica a questa rivolta fu il Concilio di Trento (1545-63), che enfatizzò tra l’altro l’idea che Noè fosse il salvatore dell’umanità, un precursore di Gesù Cristo. La popolarità del soggetto potrebbe però essere dovuta anche a un altro motivo. Pietro Aretino (1492-1556), il drammaturgo e poeta erotico di orientamento apertamente omosessuale, tradusse la Genesi in italiano (Venezia, 1538), aggiungendovi abbellimenti frutto della propria immaginazione, con un’evocazione particolarmente drammatica del diluvio universale. Jacopo Bassano amava riempire i primi piani di vita agreste e di animali, nascondendo sullo sfondo il soggetto vero e proprio del dipinto.

In questo caso, ha adattato questa formula alla storia del diluvio, e l’azione e il dramma sono notevolmente vicini alla descrizione della scena proposta dall’Aretino. Bassano potrebbe anche essere stato a conoscenza della grande alluvione del 1560, quando il fiume che attraversa Feltre, vicina alla città di Bassano, ruppe gli argini con gravi perdite di vite umane. Jacopo e la sua bottega dipinsero la storia del diluvio di Noè ripetutamente a partire dagli anni ’70 del Cinquecento. In effetti, la serie del diluvio in quattro parti fu più numerosa di qualsiasi altra scena dell’Antico Testamento. Questa versione fa parte di una serie commissionata da Guglielmo Gonzaga, duca di Mantova, e poi venduta al Carlo I d’Inghilterra (1600-49): per questo oggi si trova nelle Collezioni Reali britanniche.

Il commento teologico: i giorni di Noè devono ancora venire (un esempio dal progetto «Visual Commentary on Scripture»)

La storia di Noè e del diluvio era, ed è tuttora, una delle più note dell’Antico Testamentoe nel corso dei secoli è stata rappresentata con grande fantasia. Trecento anni separano la prima immagine di questa piccola «mostra» online: da una miniatura con cadaveri sott’acqua di Walter de Brailes (1260 ca) al grande e teatrale olio del 1584 circa in cui il veneziano Jacopo Bassano ritrae persone disperate che cercano di salvarsi. In mezzo, la nitida xilografia tardogotica della Schedelsche Weltchronik (o Liber Chronicarum, 1493), proveniente dalla bottega del tedesco Michael Wolgemut, che raffigura Noè come un florido costruttore di navi che dirige la costruzione dell’arca.

Si può solo ipotizzare quali pensieri avessero in testa i tre artisti riguardo al racconto, ma di certo per tutti loro le storie narrate nella Bibbia erano reali, e in esse il diluvio di Noè era un evento importante. Questo perché, secondo la tradizione antica, esso concludeva il primo capitolo dell’esistenza dopo la Creazione (i sei capitoli successivi, nella Schedelsche Weltchronik, sono: il periodo fino alla nascita di Abramo; fino alla nascita di re Davide; fino all’esilio babilonese; fino alla nascita di Cristo; e poi tutto il tempo successivo, con la seconda venuta di Cristo come ultimo capitolo).

Si può anche essere certi che essi conoscessero bene il modo in cui la storia si riferiva alla seconda venuta, perché queste parole del Vangelo di Matteo sono sempre state lette nelle liturgie del periodo dell’Avvento, che ricorda sia la prima venuta di Cristo a Natale, sia il suo ritorno finale. «Gesù disse ai suoi discepoli: “Come fu ai giorni di Noè, così sarà la venuta del Figlio dell’uomo”. Infatti, come nei giorni che precedettero il diluvio mangiavano e bevevano, prendevano moglie e marito, fino a quando Noè entrò nell’arca e non si accorsero di nulla finché venne il diluvio e inghiottì tutti, così sarà anche alla venuta del Figlio dell’uomo» (Matteo 24, 37-39).

In altre parole, il diluvio è un avvertimento a essere pronti per la fine dei tempi. Non è molto probabile che gli artisti padroneggiassero l’interpretazione teologica del diluvio universale, ma è certo che fossero stati abituati a guardare oltre i nudi fatti della Bibbia per cogliere significati allegorici e morali, in quanto ciò era parte intrinseca della mentalità cristiana anche alla fine del XVI secolo.

Non sarebbero stati lì a chiedersi, a differenza degli odierni interpreti letterali della Bibbia, come potessero tutti gli animali del mondo entrare nell’arca (anche se questa era lunga come un campo di calcio). Infatti, come scrisse nel IV secolo san Giovanni Crisostomo nelle sue omelie sulla Genesi, deliziosamente concrete, non dobbiamo speculare su quanto puzzasse l’arca, su dove si procurassero l’acqua da bere o sul perché Noè non sia stato divorato dai leoni, perché non dobbiamo mettere in discussione le azioni di Dio con le forze umane. Così, durante il Medioevo e oltre, la salvezza di Noè con la sua famiglia e gli animali era vista come una prova della giustizia e della misericordia di Dio, mentre l’arca stessa era considerata un simbolo che prefigurava la Chiesa come la comunità in cui tutti avrebbero trovato la salvezza.

Il messaggio morale per l’individuo era: dobbiamo vivere in modo virtuoso e obbedire a Dio, proprio come Noè visse in modo virtuoso e obbedì alle istruzioni di Dio, per quanto folli potessero sembrargli. Ma il messaggio chiave del diluvio di Noè era che Dio aveva detto che non avrebbe più distrutto il mondo. Per noi oggi, il messaggio (se continuiamo a pensare in modo allegorico) è che la creazione è stata affidata all’umanità e noi ne siamo responsabili. Noè è tutti noi e possiamo ancora salvarci. Ognuno di noi deve costruire un’arca contro il caos, il diluvio di oggi. L’arca è un microcosmo del mondo intero (non a caso chi scrive è stata presidente della onlus «Venice in Peril»).
 

Così lo racconta la Bibbia

Il Signore disse a Noè: «Entra nell’arca tu con tutta la tua famiglia, perché ti ho visto giusto dinanzi a me in questa generazione. D’ogni animale mondo prendine con te sette paia, il maschio e la sua femmina; degli animali che non sono mondi un paio, il maschio e la sua femmina. Anche degli uccelli mondi del cielo, sette paia, maschio e femmina, per conservarne in vita la razza su tutta la terra. Perché tra sette giorni farò piovere sulla terra per quaranta giorni e quaranta notti; sterminerò dalla terra ogni essere che ho fatto». Noè fece quanto il Signore gli aveva comandato. Noè aveva seicento anni, quando venne il diluvio, cioè le acque sulla terra. Noè entrò nell’arca e con lui i suoi figli, sua moglie e le mogli dei suoi figli, per sottrarsi alle acque del diluvio. Degli animali mondi e di quelli immondi, degli uccelli e di tutti gli esseri che strisciano sul suolo entrarono a due a due con Noè nell’arca, maschio e femmina, come Dio aveva comandato a Noè. Dopo sette giorni, le acque del diluvio furono sopra la terra; nell’anno seicentesimo della vita di Noè, nel secondo mese, il diciassette del mese, proprio in quello stesso giorno, eruppero tutte le sorgenti del grande abisso e le cateratte del cielo si aprirono. Cadde la pioggia sulla terra per quaranta giorni e quaranta notti. In quello stesso giorno entrò nell’arca Noè con i figli Sem, Cam e Iafet, la moglie di Noè, le tre mogli dei suoi tre figli: essi e tutti i viventi secondo la loro specie e tutto il bestiame secondo la sua specie e tutti i rettili che strisciano sulla terra secondo la loro specie, tutti i volatili secondo la loro specie, tutti gli uccelli, tutti gli esseri alati. Vennero dunque a Noè nell’arca, a due a due, di ogni carne in cui è il soffio di vita. Quelli che venivano, maschio e femmina d’ogni carne, entrarono come gli aveva comandato Dio: il Signore chiuse la porta dietro di lui. 
(Genesi 7:1,16)

L’inondazione
Il diluvio durò sulla terra quaranta giorni: le acque crebbero e sollevarono l’arca che si innalzò sulla terra. Le acque divennero poderose e crebbero molto sopra la terra e l’arca galleggiava sulle acque. Le acque si innalzarono sempre più sopra la terra e coprirono tutti i monti più alti che sono sotto tutto il cielo. Le acque superarono in altezza di quindici cubiti i monti che avevano ricoperto. Per ogni essere vivente che si muove sulla terra, uccelli, bestiame e fiere e tutti gli esseri che brulicano sulla terra e tutti gli uomini. Ogni essere che ha un alito di vita nelle narici, cioè quanto era sulla terra asciutta morì. Così fu sterminato ogni essere che era sulla terra: con gli uomini, gli animali domestici, i rettili e gli uccelli del cielo; essi furono sterminati dalla terra e rimase solo Noè e chi stava con lui nell’arca. Le acque restarono alte sopra la terra centocinquanta giorni.
(Genesi 7:17-24).

Anna Somers Cocks, 29 maggio 2023 | © Riproduzione riservata

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