«Stranieri Ovunque» è cosa loro. Il titolo della prossima Biennale Arte di Venezia, curata da Adriano Pedrosa, è presa proprio dal lavoro di Claire Fontaine, il collettivo artistico (il nome è ispirato a una nota marca di quaderni scolastici francesi) composto da Fulvia Carnevale e James Thornhill, che per primo ha utilizzato nelle proprie opere e pubblicazioni la frase emblema della mostra dedicata agli artisti queer, outsider, indigeni che cercano una nuova legittimazione. Ma Claire Fontaine, nato a Parigi nel 2004 e poi trasferitosi a Palermo nel 2017, sempre più sulla cresta dell’onda con la sua arte neoconcettuale che passa indifferentemente dal neon al video dalla scultura alla pittura, ha dato la sua «benedizione». E a Venezia ci sarà. Sia nella mostra di Pedrosa, sia tra gli artisti scelti dal Padiglione della Santa Sede che sarà ospitato nel carcere femminile della Giudecca. Abbiamo intervistato il duo di artisti.
Voi avete in qualche modo il «copyright» del messaggio «Stranieri Ovunque-Foreigners Everywhere», che per primi avete utilizzato nel vostro lavoro già parecchi anni fa. Com’è nata l’idea di Adriano Pedrosa di utilizzarlo per la sua Biennale? Vi ha interpellato? Ne avete discusso? E vi identificate nel significato che Pedrosa ha voluto dare a questo titolo e nelle tematiche della Biennale Arte?
In realtà, come abbiamo spesso raccontato, l’idea di «Stranieri Ovunque» viene da una firma su un volantino antirazzista trovato a Torino ormai vent’anni or sono. Quindi, fin dal principio, si tratta di un’appropriazione che, essendo anche un nostro autoritratto, è diventata parte integrante delle nostre vite: il neon «Stranieri Ovunque» che esponemmo nel 2004 è la prima cosa che si vede entrando a casa nostra, «foreigners everywhere» è la nostra email ed è il titolo del nostro primo catalogo edito da Koenig. No, non avevamo idea che Adriano avesse scelto questo titolo per la Biennale ed è stata una vera sorpresa che però è da subito apparsa carica di senso. Da un lato, ci ha reso doppiamente omaggio appropriandosi di queste parole, come noi l’avevamo fatto in principio, e citandoci come la fonte della sua ispirazione, ma dall’altro ha anche sconvolto i parametri in gioco trasformando una frase che sentivamo ormai come nostra in un ready-made, perché così decontestualizzata diventa qualcosa che si relaziona con altre circostanze, altre opere, con un altro contesto che non conosciamo né controlliamo (la mostra non è ancora aperta e non sappiamo come sarà). In questo momento sembra un titolo perfetto per definire la crisi che attraversiamo e in particolare il conflitto israelo-palestinese, emblematico rispetto alla questione coloniale, la diaspora e il sentimento nazionalista, cui abbiamo dedicato tanti lavori e una versione specifica di «Foreigners Everywhere».
Che tipo di intervento porterete alla Biennale? E al Padiglione della Santa Sede, a cui pure parteciperete?
Alla Mostra Centrale porteremo un archivio di tutti gli «Stranieri Ovunque» che abbiamo creato: saranno 60 e si troveranno sia ai Giardini sia all’Arsenale. Al Padiglione della Santa Sede, che quest’anno si trova all’interno della Casa di detenzione femminile della Giudecca e che è intitolato «Con i miei occhi», presenteremo due opere sullo sguardo e la sorveglianza, sulla solitudine e il rifiuto di vedere i problemi che caratterizzano la nostra società digitale.
Avete iniziato a lavorare a Parigi ma poi vi siete spostati a Palermo. Perché?
Le città cambiano e non sempre noi cambiamo insieme a loro. Abbiamo sentito il bisogno di spostarci in un luogo che fosse meno saturo e violento, più sensuale e aperto agli elementi, a delle forze che non fossero solo quelle del potere e del mercato. Palermo rimane una città piena di misteri e di contraddizioni, un luogo in cui si ha il privilegio di vivere in mezzo a cose che sono state danneggiate del tempo e dall’incuria e in cui si può far pace con la propria inquietudine e aprirsi alla vita.
Quali sono i vostri prossimi progetti? Si è da poco inaugurata una vostra installazione a Palazzo Maffei a Verona, con il messaggio «Beauty is a ready-made». Che cosa significa per voi?
L’intervento a Palazzo Maffei è profondamente site specific. Ci è stato richiesto di instaurare un dialogo con «La Bagnante» di Alessandro Puttinati, una statua ottocentesca affascinante che raffigura una donna con un seno scoperto nell’atto di denudarsi una gamba. Abbiamo voluto accompagnarla con un lavoro che entrasse in un contrasto visualmente e poeticamente valorizzante rispetto al nostro contesto contemporaneo e alla nostra posizione femminista. L’idea di bellezza non è né oggettiva né soggettiva, è il risultato di condizionamenti storico-sociali. Può essere estetica quanto etica, e qui abbiamo espresso un invito a rivedere il valore di questa idea, a toglierle la sua funzione abituale e a ricontestualizzarla, come accade con ciò che diventa un ready-made.
Usate linguaggi diversi per esprimere la vostra arte, dal neon al video, alla scultura, alla pittura, al testo. Che cosa rappresenta per voi questa versatilità di forme espressive?
La forma e il contenuto delle nostre opere sono inseparabili, l’ampiezza del nostro vocabolario formale e l’ampio uso della testualità non devono trarre in inganno, esiste una logica poetica dietro ogni decisione di dare forma a delle parole e a un’idea in un certo modo. Spesso utilizziamo linguaggi tradizionalmente pubblicitari per riempirli di contenuti che invece di manipolare gli spettatori li emancipano.
Come vi ponete rispetto a chi guarda le vostre opere? Quali sono i valori fondanti di esse che vorreste fossero percepiti?
Nel nostro lavoro ci rifiutiamo di sedurre gli spettatori e le spettatrici, di metterli in una posizione di passivi ammiratori della maestria ineguagliabile dell’artista. C’è qualcosa di profondamente patriarcale in questa posizione, un uso del proprio lavoro artistico per accrescere il potere personale. Con Claire Fontaine cerchiamo sempre di mostrare la coralità del processo creativo, tramite la nostra propria collettività, la citazione esplicita di altri e altre, la problematizzazione del contesto in cui l’incontro con l’opera si produce. Il nostro desiderio è creare uno spazio in cui alcuni affetti, sentimenti, emozioni, pensieri, diventino accessibili tramite le opere e possano essere inclusi nelle vite di chi altrimenti li rifiuterebbe.
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