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Alessandra Mammì
Leggi i suoi articoliScrittore, pittore, cineasta, uomo di teatro, teorico, filosofo, soprattutto artista, ma anche contadino che fonda una comunità agricola etico-estetica per piantare semi e far crescere idee: a cent’anni dalla nascita e a due dalla morte, non era facile rendere omaggio a Gianfranco Baruchello (Livorno, 1924-Roma, 2023) con un unico evento. Quindi ecco giungere non solo una mostra nell’appena restaurata Villa Farnesina a Roma in dialogo con gli affreschi di Raffaello e dei suoi illustri collaboratori (fino al 3 maggio), ma anche un convegno internazionale di studi (23-24 gennaio) dal «baruchellico» titolo «Il possibile. Istruzioni per l’uso» e infine, nel parco della Farnesina, la realizzazione di un suo progetto: un giardino di piante velenose e bellissime per insegnarci a dubitare della bellezza come primo passo per pensare. È l’inizio di una riflessione che crescerà con l’arrivo degli atti del convegno, voluto e sostenuto da Roberto Antonelli, presidente dell’Accademia dei Lincei ma ideato e curato, come la mostra, da Carla Subrizi, stimata storica dell’arte, ma qui soprattutto sua compagna di vita e di pensiero che in questo colloquio ci regala un ritratto inedito di Gianfranco Baruchello: per lei semplicemente Bàruch.
Arte, cultura, natura, idee che diventano immagini, immagini che si trasformano in linguaggio. Più che celebrazione, la mostra e il convegno appaiono come un’indagine sul «metodo Baruchello». In tanto lavoro ha scoperto qualcosa di lui che non sapeva?
Direi di no. Il nostro rapporto è stato molto intenso intellettualmente e molte cose sono nate proprio dal parlare, vivere, discutere insieme. Semmai mi ha stupito il successo del convegno, l’affluenza inattesa e la partecipazione che ha visto crescere il pubblico di ora in ora. Inoltre, abbiamo sperimentato una metodologia che permetteva a tutti i relatori di avere accesso ai documenti di archivio, grazie a cartelle Drive divise per temi ma libere per tutti. Si è creata una coralità che ha reso questo convegno diverso dal simposio dove ognuno espone la propria tesi. Qui le relazioni erano interconnesse come se fossero nate da un dialogo nelle sale di una stessa biblioteca. Uno dei relatori mi ha persino detto: «Sembra di aver partecipato a un’opera postuma di Baruchello». La cosa mi ha inquietato, ma era un segnale.
A proposito del vostro rapporto, un artista e una storica dell’arte che vivono e pensano insieme è quasi una sperimentazione. Come vi siete conosciuti?
Nei primi anni Ottanta mi sono laureata con una tesi su André Masson, ma subito dopo la laurea ho cominciato a studiare cinese e a collaborare con il Museo d’Arte Orientale di Roma. Nel frattempo, davo lezioni di pianoforte che mi aiutavano a vivere. Fu solo verso gli anni Novanta che ho sentito il bisogno di riprendere gli studi e iscrivermi alla Scuola di specializzazione. Dovendo scegliere una tesi, decisi di orientarmi su un artista romano che mi consentisse di frequentare il suo archivio. Baruchello era un nome che incontravo molto spesso nei manuali di Giulio Carlo Argan, nei documenti di Fluxus, citato nella Pop art romana e altro. Eppure, come artista non compariva in nessuno dei movimenti che disegnavano la contemporaneità. Insomma, era dappertutto e da nessuna parte. Poi, per caso (ammesso che il caso esista), lo incontrai a cena a casa di una mia zia, che per strane coincidenze dava ripetizioni di latino a sua figlia. Così cominciai a frequentare il suo studio prima per la tesi e poi per lavorare all’archivio.
E l’archivio fu galeotto?
Le cose sono molto più complesse. Non c’era alcuna relazione tra noi, se non quella professionale e in più mi dovetti allontanare per più di un anno per motivi di salute. Lui mi scriveva, mi chiamava, mi invitava a tornare al lavoro. Mi diceva scherzando che se avessi rinunciato sarebbe stato come rinunciare a Picasso.
Ma all’epoca Baruchello non era celebrato come Picasso. Viveva piuttosto in un aureo isolamento. Nel frattempo era riuscita a capire perché lui fosse dappertutto e da nessuna parte?
Ho scelto la storia dell’arte perché pensavo fosse necessario uscire dalla gabbia che la imprigionava in grandi movimenti, personaggi, correnti. Era come una storia chiusa, che lasciava fuori dalle sue pagine troppe cose, troppi nomi. Quindi avevo deciso di lavorare sul rimosso. Mi chiedevo: quanti Baruchelli ci saranno nel mondo? E se avevo scelto lui era perché il suo pensiero e le sue opere traducevano il mio stesso metodo. Nei dipinti riusciva a creare uno spazio in cui non era importante solo il centro ma anche il margine e in cui le cause e gli effetti non apparivano lineari ma potevano oscillare da una parte all’altra. Ogni suo quadro traduceva visivamente lo schema di una nuova e diversa narrazione dell’arte che sentivo necessaria.
Soffriva di questa emarginazione o la cosa lo lasciava in fondo indifferente?
Certo che ne soffriva! Ma diceva che questo isolamento lo rendeva più deciso e sicuro ad andare avanti per la sua strada. Insomma, gli dava forza. Una volta mi scrisse: «Si sta fermi, si rimane ad aspettare il successo che arriverà probabilmente più o meno io defunto e premierà i pazienti...».

Una veduta di «Il fiume», 1982-83, nella mostra «Gianfranco Baruchello. Mondi impossibili» a Villa Farnesina, Roma. © Alessia Calzecchi
Condivideva questo suo atteggiamento?
Certamente: così come ero convinta che la storia dell’arte andasse riscritta, volevo che fosse riconosciuto il suo valore. La nostra relazione ebbe inizio nel 1996 ma già nel ‘97 ero riuscita a organizzare tre sue monografiche: una al Museo Laboratorio della Sapienza che fu molto apprezzata da Maurizio Calvesi, un’altra al Museo Laboratorio della Tuscia e la terza a Livorno, la città dove era nato. Del resto, il nostro rapporto aveva al centro anche una forte condivisione intellettuale. Amavamo gli stessi autori come Bataille, Deleuze, Foucault, gli stessi riferimenti nell’arte, nella filosofia, nella letteratura. Ci scrivevamo spesso tanto che vorrei fare un libro delle nostre lettere, che non sono lettere d’amore ma lettere nate dal voler fondere i nostri pensieri. Nonostante gli oltre trent’anni di differenza di età, io non sono mai stata una femme d’artiste. Certamente lui cercava di formarmi, di essere il mio pigmalione, ma io gli tenevo testa. Sebbene so che non potrà mai ricapitare un rapporto tanto intenso e meraviglioso, avvertivo che lui, come ogni grande artista che vuole incorporare e trasformare la donna che ama in un’opera, voleva portarmi dentro al suo mondo. E per quanto sia difficile resistere a un processo che ammalia come quello di diventare un’opera d’arte, sentivo la necessità di mettere dei limiti. Era faticoso opporsi a un uomo che è stato il più grande seduttore che io abbia mai conosciuto, in quanto padrone di una seduzione che partiva dalla mente.
In ogni caso, soprattutto grazie al suo lavoro di storica e curatrice, alla fine degli anni Novanta arriva la «riscoperta»: mostre antologiche, musei, biennali, documenta... In un’intervista disse: «Mi sento amato da quei nuovi curatori che per capire che cosa è stato il ’900 dei loro padri vogliono scoprire chi è rimasto fuori dal sussidiario». Si riferiva a lei?
Più che altro ai miei allievi... Giovani curatori che poi hanno fatto carriera. Ma alla base di tutto ci sono gli anni Novanta, che non furono solo il decennio della tecnologia e della nascita del web come si tende a semplificare, ma soprattutto gli anni di un radicale cambiamento geopolitico che ha inizio con la caduta del muro di Berlino. Una diversa geografia che fa emergere una nuova idea dell’altro. La riscoperta di Paesi e culture finora assorbiti dall’Occidente ci costringono a rivedere ogni cosa. Si sviluppa l’importanza della microstoria e di «altre storie» fino ad allora subordinate alla Grande Storia scritta dall’Occidente. Si scopre il pensiero di Édouard Glissant e mostre come «Inklusion: Exklusion» a Graz, che insegnano come quei popoli fino ad allora esclusi non vogliano entrare nella «nostra storia» ma restarne fuori, alla ricerca della loro identità.
In sintonia con lo spirito dei tempi, Baruchello quindi non è più l’escluso da recuperare ma semmai il profeta inascoltato, il perfetto interprete del decennio.
Esatto. Guardiamo un suo quadro: c’è tutto, ma tutto è piccolo, miniaturizzato, disseminato... È come dovremmo riscrivere la storia: tutte le voci sono presenti ma il centro non si sa quale sia. L’immagine è libera, si può guardare dall’alto, dal basso, da destra, da sinistra. Lui propone un concetto di spazio e un sistema di organizzazione degli elementi che gli servono per materializzare le sue idee. Crea uno spazio che possa essere un sistema di relazioni, perché prima ancora che l’era digitale le mettesse al centro del nostro vivere, Bàruch si interessava a nessi e connessioni e amava accendere cortocircuiti fra le differenze, in una sospensione del giudizio dove non c‘è buono e cattivo, bello e brutto, ma tutto è in una forma di dialogo che non esclude nulla e gioca con il cambiamento dei punti di vista. Quindi nello stesso spazio presente-futuro-accadimento fortuito convivono nella simultaneità.
In effetti fu davvero in anticipo sui tempi. Il suo film ipersperimentale e concettuale «Verifica incerta», collage di spezzoni di pellicola, è del 1964 ma nel 1989 fu indicato come padre nobile di «Blob», uno dei programmi più popolari della televisione pubblica…
Forse era necessario che crollassero le ideologie per capire un artista come Bàruch, di certo la persona meno ideologica che io abbia conosciuto. Un uomo che ha sempre rivendicato il dubbio come la più alta forma di intelligenza, che sosteneva che il sapere non va patrimonializzato ma che «deve rendere problematica ogni successiva acquisizione» e che ha infine costruito un’enciclopedia che disgrega l’accumulo del sapere. (Psicoenciclopedia possibile, Treccani 2020).
Di tutta la sua sterminata produzione qual è la cosa più importante che ci ha lasciato?
Di certo la Fondazione che abbiamo costruito insieme e che lui ha voluto fortemente, proprio perché tutte queste cose restassero unite in quanto parte di un complesso organismo che non doveva essere smembrato. Quel «viridarium philosophicum», come lo definiva. Un giardino dove si seminano e ancora oggi crescono idee, grazie ai tanti scritti nei quali risuona il suo pensiero fin nei dettagli. Testi da studiare e ristudiare affinché, come con il convegno, la sua complessità si apra a un dialogo che vada oltre l’arte e arrivi al mondo.

Gianfranco Baruchello e Carla Subrizi, 2017. Foto: Pasquale Abbattista. Archivi Fondazione Baruchello, Roma
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