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Guglielmo Gigliotti
Leggi i suoi articoliCristiana Collu (Cagliari, 1969) ha portato a compimento il 3 novembre (ma si parla di una proroga di un paio di mesi, Ndr) il suo mandato, di quattro anni più quattro, alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea. In otto anni l’ha rivoluzionata non poco. Giunta alla guida del museo statale nel 2016, la storica dell’arte (medievista di formazione e contemporaneista per sensibilità e apertura mentale) aveva diretto nella sua Sardegna il Man di Nuoro dalla sua fondazione nel 1996 e fino al 2012, e il Mart di Trento e Rovereto nel 2013-14.
Direttrice, sono molte le rivoluzioni da lei apportate alla Galleria Nazionale, a partire da quella museologica, avendo scardinato, con l’allestimento «Time is out of joint», la credenza che un museo debba rispondere a criteri espositivi cronologici. Il tempo esteriore, fatto di secoli e secondi, non spiega l’arte?
Rivoluzione è una parola irresistibile ma fatidica, certamente non è ecumenica e non è per sedentari conservatori reazionari. Il mio intento però non è mai stato tanto rivoluzionare, quanto dirigere la Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea, l’unico museo nazionale dedicato all’arte del proprio tempo fin dalla sua costituzione per Regio Decreto (opere eccellenti in pittura, scultura ecc, senza distinzioni di genere e maniera di artisti viventi). Un documento programmatico, il dna della Galleria, la sua vocazione e la sua missione. La collezione nella sua vastità testimonia quanto sia fertile quell’intuizione.
Quasi subito infatti si pensa a un ampliamento dello stesso edificio Bazzani in cui era sorta (l’architetto Cesare Bazzani è il progettista delle due maniche, del 1911 e del 1933, Ndr) e più tardi all’ampliamento Ala Cosenza (dal nome del suo progettista, Luigi Cosenza, Ndr). La Galleria per partenogenesi ha dato vita al MaXXI e sono certa che in futuro genererà ancora. La cronologia dell’ordinamento viene dopo e per convenzione come una delle possibilità espositive esplorate e comunque sempre mancanti, sempre apparentemente aderenti a un tempo lineare e analogico. Del resto, nessuna cronologia e nessuna storia è coerente, ma piena di lacune. Il tentativo di colmarle è un atto creativo di immaginazione necessario e la scienza ce lo insegna. La linearità, comunque intermittente, è solo una delle possibilità di raccontare la storia dell’arte e non solo all’interno di un museo.
Il museo, con questa filosofia, non si fa opera d’arte?
Assume su di sé il rischio, non tanto quello di farsi opera d’arte ma di essere opera delle arti. Rimane un luogo radicale di possibilità, creatività e invenzione a dispetto di tutte le definizioni ignoranti e limitate che vorrebbero che se ne stesse immobile, identico e ovvio, mero contenitore sebbene scrigno per antonomasia. Il museo è un dispositivo sornione, pronto a rimettersi in gioco, plastico e duttile, curioso e accogliente per definizione.
Ora la rivoluzione «green»: dal 2016 ha approntato, primo museo in Italia, un programma di ottimizzazione delle risorse, di efficientamento energetico, di sfruttamento di fonti rinnovabili. Ha pure nominato un «Energy Manager».
È un progetto potente che ha dato molte soddisfazioni e molti primati ancora insuperati. Abbiamo ottenuto la Certificazione Iso 50001 nel 2019 precedendo anche il Louvre (2020) ma soprattutto dal gennaio 2022 abbiamo azzerato le emissioni di Co2 e ridotto notevolmente la spesa energetica. Dati e cifre significative e misurabili che certificano buone pratiche e lungimiranza. Nessun annuncio, nessun greenwashing, ma azioni concrete e risultati tangibili, per rispondere a un’istanza che ci riguarda, urgente e inderogabile. Una risposta conseguente, dovuta e dedicata alle giovani generazioni che avvertono il pericolo di un futuro compromesso dalla nostra scelleratezza.
Con lei il pubblico è raddoppiato. Che ruolo svolge il visitatore, nella sua visione di museo?
Sì, è raddoppiato e nel 2017 è stato registrato il maggior numero di visitatori di sempre a memoria di Galleria. In otto anni oltre un milione e mezzo di visitatori, una cifra da capogiro per un museo di arte moderna e contemporanea a Roma. Ma non solo, il pubblico è cambiato, è molto più giovane e variegato. Si muove con sicurezza dentro «Time is out of joint» come sa fare chi è abituato ai dispositivi intuitivi. Gode della mia massima fiducia e approvazione. Sono loro i registi e le registe del singolare, esclusivo e personale film sul tempo dell’arte alla Galleria Nazionale.
Essere direttrice è la stessa cosa che essere direttore?
Solo qualora fossero entrambi femministi.
Qual è il suo rapporto con Roma?
Senza mettere la mano nella Bocca della verità? Mite al crepuscolo.
Lei ha raramente firmato la curatela di mostre, lasciando il campo ad altri. In genere capita il contrario... Che cosa c’è dietro? È solo una questione di ego?
Non ho mai diretto un museo per curarne le mostre, ma per imprimere una visione, amministrare e gestire un programma, un patrimonio, una collezione, un bilancio, un complesso sistema di relazioni. Ho assunto su di me responsabilità nella piena consapevolezza del ruolo, anche curando personalmente progetti che dovevano rappresentarne la leadership artistica e culturale. Ho comunque sempre fatto il mio mestiere, dirigere un museo. Il che significa contribuire a creare un sistema di opportunità per chi lavora dentro e fuori l’istituzione riconoscendone le competenze.
Nei suoi testi o discorsi, spesso cita filosofi, santi e poeti, e il tema sovente è la ricerca della quiete. Come si concilia questo spirito con l’indiavolata frenesia della gestione burocratica e amministrativa, oltre che culturale, di un grande museo?
Forse ne è il naturale contrappeso. In ogni caso le mie sante preferite sono frenetiche e «indiavolate»: Teresa, Juana, Hildegarda...
Una protagonista della scena dell’arte contemporanea come lei nasce storica dell’arte medievale: non fa riflettere la cosa?
Io credo piuttosto di essere una protagonista della scena museale contemporanea e non solo in Italia. Siamo contemporanei a prescindere e nostro malgrado. Le competenze devono essere più vicine a come «stare al mondo» nel nostro tempo che aderenti all’ambito disciplinare che abbiamo scelto per la nostra formazione accademica. Ma senza dubbio lo sguardo a partire dalla svolta epocale del tardo antico, momento cruciale e traumatico di inesorabile trasformazione, disfacimento e risignificazione, incredibilmente potente e attuale, ha sempre rappresentato uno strumento indiziario per l’individuazione dei «punti sorgente».
L’istituto museo, in ogni dove, si sta trasformando in qualcos’altro. In che cosa?
Si sta trasformando in museo. Voglio dire: un museo è un museo è un museo.
Come definirebbe il suo carattere e la sua personalità: grintosa con poesia?
Grintosa con grazia? Così abbiamo anche l’allitterazione. Stoica con brio?
Che cosa direbbe a chi le succederà al timone della Galleria Nazionale?
Che cosa dirò: ci sarà infatti un passaggio di consegne, che non è solo un atto amministrativo, ma un passaggio di testimone. La Galleria gode di ottima reputazione e di un’ottima salute, mentre nel 2015, come noto, era cagionevole. La cura è stata efficace e la guarigione rapida. Chi verrà dopo di me partirà da una solida base amministrativa e gestionale. Salterà su un’auto in corsa con il pieno, su una nave da crociera che naviga in acque sicure, e su un’astronave (l’Ala Cosenza) sulla rampa di lancio.
Se ripristinasse l’ordine cronologico, penserebbe di non essere stata capita?
Io ho fatto il mio tempo in Galleria: ho segnato il passo, ho finito un percorso, ho lasciato a mia volta un’eredità. La questione si ripropone in questi termini ed è sempre e solo una questione di responsabilità e di infedele fedeltà. «Time is Out of Joint» è la collezione del museo allestita «come se» fosse una mostra temporanea, questo ha reso possibile scardinare una pseudo ortodossia buona per chi non ha nulla da raccontare, consolatoria per timorati osservanti indolenti, privi di empatia e immaginazione. «Time» ha assolto la narrazione del museo da quella del manuale di storia dell’arte e ha restituito alle opere e al pubblico la parola.
Dirige musei da 27 anni: com’è cambiato questo mestiere?
E da quando ne avevo 27. Così anche con l’anagrafica siamo a posto. Dirigere un museo non è un pranzo di gala, l’energia necessaria si trova solo nella passione e nell’entusiasmo. Si può continuare a farlo solo con l’umiltà di comprendere che il modo che abbiamo trovato per fare questo mestiere non è dato una volta per tutte e non è buono per ogni museo. Il resto sono i dettagli del tempo in cui siamo. Quando avevo 27 anni la Preistoria del digitale e della telefonia mobile era già nel suo Medioevo, adesso social, intelligenza artificiale e metaverso in pochi anni sono già diventati barocchi. Non si tratta di andare veloci, bisogna saper fare surf.
Lascia il museo con l’allestimento spettacolare, da quadreria antica, di «Panorama XIX», visitabile fino a dicembre: qual è il sottotesto?
Nel 2016, la mostra «The Lasting. L’intervallo e la durata», nel salone centrale, snodo cruciale degli spazi della Galleria, è stata il preludio di «Time is Out of Joint», solido e plastico palinsesto che mi ha consentito di esporre oltre 2mila opere della collezione senza nessun pregiudizio o preclusione. Ho iniziato dalla fine e finisco con l’inizio, non ho mai perso di vista la collezione. «Panorama XIX» è lo sguardo a perdita d’occhio sul mondo che ci circonda, è la realtà reale, è il tempo dentro linee centrifughe, è la stella che danza sulle note del valzer, la nascita della fotografia, dell’immagine in movimento, il catalogo di molti temi con i quali continuiamo a misurarci, la natura e il paesaggio, il colonialismo, la violenza e la guerra purtroppo, sempre la guerra.
Quale opera della Galleria Nazionale le è entrata nel cuore?
Ho un cuore così grande che ci sono entrate tutte.

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