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Cucina italiana, Unesco e «identità». Parliamone

Il nostro Paese è riuscito ad «appropriarsi» con intelligenza e rispetto delle non poche culture che, dominandoci a turno, hanno scatenato la nostra creatività

Mentre Don Giovanni procede a grandi passi verso la dannazione, l’unico peccato carnale che viene davvero commesso è la gola. Non è la cucina salisburghese, come ci si potrebbe aspettare: il librettista di Mozart, Lorenzo Da Ponte, è veneto. In un’opera così materiale non può far a meno di citare il prosecco (Valdobbiadene), il prosciutto (San Daniele), il marzemino (Trento), il fagiano (Valli di Comacchio)... Chilometro zero, si direbbe oggi. Certo, l’opera l’ha composta un austriaco. Ma il gusto della Corte d’Asburgo-Lorena preferiva lo stile italiano, come del resto tutta l’Europa che si preparava all’irruzione della borghesia imprenditoriale.

Così, due anni dopo l’inclusione dell’Opera italiana nella Lista del Patrimonio immateriale dell’Unesco, anche la cucina italiana è stata ammessa formalmente in quel gotha mondiale del quale ha sempre fatto parte. Come per l’Opera (la cui italianità risiede nelle origini storiche e, con il passare del tempo, in un approccio narrativo complesso e denso di inciampi, rivelazioni e una cascata di frasi idiomatiche diventate subito immortali) così per la cucina italiana, la prima a essere inclusa per intero e non per il merito di una singola pietanza, la filosofia di fondo che la caratterizza pesa molto più della capacità iconica dei piatti che la compongono.

Scorrendo le reazioni, brilla inevitabile il riferimento all’identità italiana. Poi, con un po’ di pazienza, emergono letture più sottili e delicate, che enfatizzano la specificità dello stare in cucina, vero luogo degli affetti familiari e degli scambi tra amici; il consolidamento di tradizioni che sono andate formandosi nei decenni, quando non attraverso i secoli; la capacità innovativa, priva di pregiudizi e capace di fertilizzare curiosità e piacere; soprattutto, la ricettività nei confronti delle culture del mondo, a partire dalla ricchezza biodiversa del Mediterraneo, da cui transitano per l’Italia, e vi si insediano magnificamente, ingredienti del Medio Oriente e dell’Africa (bastano gli agrumi, la vite, i grani?). Siamo riusciti a «italianizzare» il pomodoro e il peperoncino, che prima della scoperta dell’America erano semplicemente assenti, e a inventare la carbonara quando nella Razione K dei militari americani c’era il bacon (i puristi del guanciale dovevano ancora scatenarsi).

Ecco il vero merito che il nostro Paese, per indole versatile e per storia molteplice, è riuscito ad «appropriarsi» con intelligenza e rispetto delle non poche culture che, dominandoci a turno, hanno scatenato la nostra creatività. L’identità italiana è da sempre ricettiva e cosmopolita, si arricchisce di connessioni e scambi, con quel «mosaico» che gli stessi estensori del dossier di candidatura all’Unesco hanno scelto come parola chiave e che descrive lo svolgersi delle relazioni personali e sociali intorno a tavole e fornelli. Ora, al di qua delle celebrazioni (che oscillano tra provincialismo competitivo e lucidità circostanziata) è tempo di pensare alla responsabilità che il «bollino Unesco» richiede alla cucina italiana: schivare le etichette a buon mercato e talvolta abusive, rafforzare la filiera della formazione, dell’accesso al mercato del lavoro e delle opzioni commerciali, e soprattutto continuare a guardare sia in casa sia fuori per cogliere quei fermenti narrativi che declineranno la cucina italiana dei prossimi anni.

Michele Trimarchi, 10 dicembre 2025 | © Riproduzione riservata

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