Michele Trimarchi
Leggi i suoi articoliÈ tornato il turismo. Dopo due anni di clausura e di paura, i dati suonano incoraggianti. Eppure ci eravamo illusi che la cesura pandemica potesse spazzare via i non pochi alibi che per lunghi anni hanno lasciato che tutto si dipanasse come sempre, tra navi da crociera nei porti fragili e pullman pachidermici nei centri storici, guide informali ma agguerrite e menù turistici dappertutto. Volendo dirlo con franchezza, il turismo culturale in Italia non è mai esistito. Esiste, in modo anche rumoroso, una somma aritmetica fra luoghi d’arte e turisti di massa. Ed emerge qualche confortante eccezione, viaggiatori che adottano un approccio artigianale, che cercano di mescolarsi alle comunità territoriali, che rifuggono i percorsi tracciati da solchi come nella Santa Casa di Loreto e che curiosano laicamente in quegli scrigni carichi di segni, linguaggi, stili e identità che sono borghi e città del nostro Paese.
Le polemiche, del tutto circostanziate, che hanno accompagnato l’uscita della versione beta di «Open to Meraviglia», hanno replicato un copione già visto con il varo del portale Italia.it, del palinsesto digitale «VeryBello», della piattaforma divulgativa «ITsART». Tutte esperienze lanciate con un certo clamore istituzionale e tutte naufragate nell’indifferenza generale a causa della loro sostanziale inutilità. E a fronte di costi d’impianto che a molti tecnici sono apparsi dissennati.
Le politiche del turismo culturale si sono sempre collocate a valle dell’infrastruttura territoriale. Che si tratti di sussidi monetari per le imprese o di azioni promozionali generali, è sempre la spina dorsale del turismo culturale stesso a restare fuori da ogni disegno, strategico o anche tattico che sia. Alla base di questo sistematico equivoco si colloca lo sciovinismo tardoagricolo di un Paese dedito all’autocertificazione compiaciuta, dalla presunta dimensione del patrimonio culturale al numero dei siti Unesco, dall’asserita italianità di un’arte che a ben guardare è sempre stata cosmopolita e ibrida, alla mistura ruffiana di arte, spiagge, cibo e simpatia.
Da questa retorica autocelebrativa affiorano non pochi inciampi interpretativi. Su tutti svetta la lettura del turista, tuttora ritagliata sul modello standardizzato del «collezionista» di icone da sbandierare una volta tornato a casa come certificazioni del proprio livello sociale. Obsoleto come l’interpretazione del turista immaginario risulta il disegno delle politiche, di lontana origine, che si stanno concentrando sui ricavi che i flussi turistici possono generare.
Già da anni la tassa di soggiorno cresce progressivamente per quanto nessuno ne destini il gettito a interventi infrastrutturali o programmi volti a facilitare il turismo stesso; si discute della tassa d’ingresso a Venezia proponendone con una certa sospetta imprecisione versioni di fatto inapplicabili; si confida nelle card che al massimo allentano alcuni vincoli pratici ma non rappresentano certo una motivazione; si ritoccano in alto i prezzi d’ingresso dei musei ignorando la lunga esperienza britannica in cui la gratuità associata a libere donazioni ha generato ricavi ben più elevati di quando per entrare si pagava un biglietto.
L’immagine del turista resta quella di un personaggio danaroso e avido di una centrifuga italiana. Ne scaturisce la scelta di farlo pagare tanto, lasciando che la fragilità spigolosa delle nostre infrastrutture e l’evanescenza dolosa dei nostri servizi siano compensate dal piacere stendhaliano di perdere la bussola al cospetto dell’arte italiana. Nel frattempo, molti contribuenti locali pagano i costi della congestione, molti altri soffrono l’assenza di flussi turistici di qualche rilievo, poche lobby chiuse incassano e i turisti leniscono i disagi di una sistematica improvvisazione grazie a quella simpatia che provano ancora per noi, nonostante i tentativi sistematici che l’Italia porta avanti per deludere chiunque ci abbia voluto credere.
Intere stagioni hanno fatto molto rumore, ma con pochissimo costrutto: anche sorridendo amaramente sui giacimenti, il petrolio, i tre quarti del patrimonio mondiale e tutta la giaculatoria autocelebrativa, si può sempre ricordare l’enfasi velleitaria dei distretti culturali; l’emersione di nuove etichette nel turismo lento, esperienziale, creativo; il viraggio dalle città d’arte alle aree interne (con molti desideri e poche azioni); il ritorno delle barriere dei prezzi e la chiusura vintage sull’uso delle immagini, che in tempi di iperconnessione e di visualità morbosa tornano nel buio. Non è cambiato molto: il sistema culturale e il suo «fallout» turistico restano ancorati a pochi iniziati gelosi e molti disorientati volenterosi, come negli anni del dopoguerra. Peccato: proprio in questi anni sta emergendo una società mai così sofisticata, complessa e laica, che adotta strumenti crossmediali, si rivela versatile e fruisce dell’arte in forme e modi inediti e non più convenzionali.
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