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In una fase particolarmente caotica come quella attuale, sarebbe stato quanto mai opportuno che l’Unione Europea scendesse in campo a favore del libero mercato introducendo, per esempio, un passaporto per le opere d’arte. Oppure che venisse stabilita una soglia comunitaria per l’Iva. Questioni urgentissime e particolarmente attuali. E poi c’è lo tsunami Trump, la folle politica dei dazi, un mondo in fiamme, la Cina pronta a mandare in tilt l’hi-tech. Insomma, le ragioni per intervenire certo non mancano. Eppure, dall’Ue arriva l’applicazione di un regolamento risalente al 17 aprile 2019 di cui nessuno, ma proprio nessuno, sentiva la mancanza, che si concentra sull’importazione e introduzione di beni culturali originati o scoperti in Paesi extra Ue. Comprese America e Cina. Sebbene il regolamento sia destinato a diventare realtà il 28 giugno, buona parte degli operatori non ne sono a conoscenza.
«Il Giornale dell’Arte» è in grado di dare in esclusiva i dettagli delle nuove disposizioni destinate a creare non pochi guai a chi si occupa di Oriente, ma anche di Africa o di Mesopotamia. A lanciare il grido d’allarme è Will Korner, direttore generale di Tefaf Maastricht e New York: «È evidente che il regolamento dell’Ue mette a rischio la circolazione delle opere d’arte nel mondo, un elemento essenziale per la nostra società e una delle missioni fondamentali di Tefaf, che negli ultimi anni ha avuto l’orgoglio di presentare capolavori dell’arte extraeuropea coinvolgendo negli acquisti anche le grandi collezioni museali».
Il regolamento Ue: inutile e dannoso
Ma di cosa si tratta con esattezza e per quale ragione i timori sono così diffusi? A spiegarlo è Giuseppe Calabi, tra i maggiori esperti di diritto dell’arte e membro del consiglio direttivo del Gruppo Apollo, che per primo ha analizzato il documento: «Sebbene si parta da premesse quanto mai condivisibili come combattere gli scavi clandestini, il riciclaggio e il traffico illecito dei beni culturali, il provvedimento non era affatto necessario, dal momento che nei Paesi dell’Unione Europea esistono già leggi particolarmente rigorose in queste materie dove l’Italia appare tra i più zelanti. Fondamentalmente, potrei dire che il fine non giustifica i mezzi e l’eccesso normativo della Ue ha solo l’effetto di dissuadere gli operatori e i collezionisti danneggiando gli scambi culturali che proprio oggi appaiono quanto mai necessari». Nella sostanza, chiunque importi nell’Unione Europea un bene originato o scoperto in altri continenti è costretto a sottoporre la domanda online al sistema elettronico centralizzato (verrà messo a disposizione a partire dal 28 giugno), dimostrando con regolare documentazione la legittima uscita dal Paese di provenienza salvo che questa sia avvenuta prima della Convenzione Unesco del 24 aprile 1972 (riguarda la protezione del patrimonio mondiale culturale e nazionale).
L’alternativa è dichiarare, sempre con prove inconfutabili, che la statua di Buddha o il vaso Ming siano rimasti per almeno cinque anni in un altro Paese al di fuori dell’Ue. Se per esempio l’opera venisse acquistata a Zurigo o a Tokyo, il proprietario dovrebbe fornire un certificato che l’opera dal 2000 non si è mossa da lì. Per essere certi che l’importazione venga consentita, ci vorranno 90 giorni, come sancito dal punto 7 dell’articolo 4 del regolamento che afferma: «L’autorità competente, entro 90 giorni dalla ricezione della domanda completa, esamina la domanda e decide se rilasciare la licenza di importazione o respingere la domanda».
Un burocratese molto esplicito i cui contenuti non sfuggono agli operatori che devono sottoporsi a questa via crucis: «È evidente che lasciare la merce ferma per tre mesi senza nessuna ragione logica rappresenti un grosso danno anche sotto il profilo economico. Sono gli stessi tempi richiesti dall’Italia per l’esportazione e questo cumulo di ostacoli e impedimenti non fa altro che disincentivare i veri appassionati, così come la circolazione delle opere d’arte», afferma Moshe Tabibnia, tra i maggiori galleristi di tappeti, arazzi e tessuti antichi.
Scandalizzato appare anche Fabrizio Moretti per oltre dieci anni Segretario Generale di Biaf, la Biennale Internazionale dell’Antiquariato di Firenze: «È assurdo che il nostro mestiere venga continuamente vessato con nuove barriere, dazi e sospetti. Gli antiquari sono i primi a voler salvaguardare il patrimonio sia esso europeo o extraeuropeo».

Buddha, Cina dinastia Qi (549-577). Courtesy Vanderven Orient Art, Hertogenbosch, Olanda
L’allarme arriva da Tefaf
Quello proposto dall’Ue è un meccanismo quanto mai farraginoso, non solo perché in molte circostanze appare estremamente difficile conoscere la storia dell’oggetto e la sua provenienza, ma anche perché va a colpire proprio quel sistema che dovrebbe difendere con norme protezionistiche che nulla hanno a che fare con le logiche del mercato. È chiaro che di fronte all’atteggiamento dell’Unione Europea gli operatori di Lugano, Londra, Hong Kong o New York sceglieranno strade meno tortuose puntando su altri lidi.
Del resto, aggirare gli ostacoli non sarà poi così difficile per chi ha la residenza a St. Moritz o a Montecarlo. «Ma per quale ragione bisogna fare i salti mortali per importare beni dall’Oriente o dall’Africa, soprattutto in un Paese come l'Italia dove il mercato è scarso?, si domanda il bresciano Lucio Morini, specializzato in paraventi giapponesi. Le opere importanti sono destinate agli asiatici o ai nuovi collezionisti del Medio Oriente. Chi punta sull’Italia dovrebbe essere premiato, non ostacolato». E le stesse problematiche vanno a pesare sulle case d’asta che a livello nazionale organizzano una vendita all’anno di arte orientale, come avviene per Cambi, Finarte o Il Ponte, con prezzi generalmente inferiori ai 10mila euro. Non manca qualche eccezione e a Milano il 30 ottobre scorso da Il Ponte un vaso in giada bianca della dinastia Qing è stato aggiudicato per 75mila euro. Sul fronte internazionale, c’è una diffusa preoccupazione anche per le fiere: chi presenta nel proprio stand Oriente o America Latina deve fornire l’autocertificazione per ogni singolo oggetto. In caso di vendita, è necessario convertire l’autocertificazione in licenza d’importazione.
Ma non solo: l’importatore, per poter presentare la domanda, deve essere registrato all’interno dell’Ue. Ciò significa che un gallerista britannico ha la necessità di creare un’entità legale all’interno dell’Unione Europea.
La banca dati europea? Un’utopia
La mostra mercato più penalizzata dal provvedimento rischia di essere proprio Tefaf, che con maggior impegno ha promosso le culture altre: «Ci aspettiamo un impatto significativo su un piccolo ma importante gruppo di una ventina di gallerie, su un totale di circa 270 espositori a Maastricht, afferma Korner. In particolare per i commercianti di oggetti archeologici scoperti al di fuori dell’Ue tra cui reperti egiziani o mesopotamici, arte africana e oceanica e così via. La normativa colpisce queste sezioni della fiera, ma anche molte altre aree, come quelle che espongono oggetti della Via della Seta, del periodo Khmer o Moghul a cui in passato non si è prestata sufficiente attenzione». Sembra proprio che l’Unione Europea abbia preso a modello la burocrazia italiana e questo risulta evidente anche dalla vastità dei beni soggetti a interventi. Basti pensare che l’Ue definisce archeologico tutto ciò che ha oltre 250 anni inserendo in questa bizzarra categoria persino il Barocco. Così, basta una moneta, un sigillo o un coccio di bottiglia che risulti d’epoca per sottoporsi alla faticosa trafila d’importazione, indipendentemente dalla soglia di valore. In questo ambito rientrano «prodotti di scavi archeologici e di scoperte archeologiche terresti o subacquee», a cui si aggiungono «elementi provenienti dallo smembramento di monumenti artistici o storici o di siti archeologici». Ancora più sconcertante la seconda categoria, che riguarda le opere che hanno oltre 200 anni dove la soglia di valore è di appena 18mila euro.
In questo mare magnum la procedura d’importazione riguarda «quadri, pitture e disegni eseguiti interamente a mano su qualsiasi supporto di qualsiasi materia; opere originali dell’arte statuaria e dell’arte scultorea di qualsiasi materia» e, se non bastasse, «incisioni, stampe e litografie originali».
Praticamente tutto lo scibile. Ma non sarebbe molto più saggio realizzare una banca dati europea finalmente funzionante che consenta d’identificare le opere frutto di ricettazione o di riciclaggio, evitando di mettere sotto sequestro tutto il mercato? Il riferimento, stando all’Italia, potrebbe essere una Digos per l’arte. Ma come canta Paolo Conte: «È tutto un complesso di cose che fa sì che io mi fermi qui».

Grande moon-flask con coperchio in giada bianca, Cina, dinastia Qing (1644-1912). È stato aggiudicato il 30 ottobre 2024 da Il Ponte a Milano per 75mila euro
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