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Un ritratto di Pico Cellini (Roma, 1906-2000), di genere anacronistico o neofigurativo, dipinto da un suo vecchio allievo e amico, Bruno di Maio, con il quale aveva restaurato molte opere

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Un ritratto di Pico Cellini (Roma, 1906-2000), di genere anacronistico o neofigurativo, dipinto da un suo vecchio allievo e amico, Bruno di Maio, con il quale aveva restaurato molte opere

Fake buster

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Redazione GDA

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Terminata la guerra il nuovo Governo italiano, finalmente democratico, pensò di inserire tra le necessità urgenti il cambio della destinazione d’uso di Palazzo Venezia. Da quel balcone non si sarebbe mai più affacciato un oratore a esibirsi in discorsi allo stesso tempo ridicoli e minacciosi. E doveva sparire anche la Sala del Mappamondo, lo studio di Mussolini, con la luce sempre accesa anche di notte, perché il duce, intento a lavorare alle sorti dell’Italia, per definizione non riposava mai, e con la scrivania messa in fondo fra le due finestre distanti una quarantina di metri dall’entrata. Questa strategia scenografica serviva a mettere in imbarazzo tutti i visitatori senza eccezione che dovevano percorrere quello spazio sotto lo sguardo corrusco del duce. Il palazzo fu trasformato in un museo dedicato soprattutto all’arte antica ma che spaziava nei secoli.

E come prima esposizione furono scelti degli immacolati marmi alessandrini, che già da lontano ispiravano purezza in virtù del loro biancore originale che avrebbe fatto dimenticare il lugubre nero orbace del regime. Tre mesi prima per una fortunata coincidenza era stata trovata tra le sabbie di una spiaggia vicina a Taranto un’enorme lastra di marmo ornata di magnifici bassorilievi, che risaliva al III secolo a.C., così almeno dicevano gli esperti della Magna Grecia.
Il direttore delle Belle Arti, Ranuccio Bianchi Bandinelli, convinto di avere tra le mani un pezzo raro, mai visto in precedenza, decise di dare una preview, in modo da permettere ai giornali di parlare della mostra prima che questa venisse inaugurata.

Tutti o quasi tutti quelli che si occupavano d’arte a Roma furono invitati a vedere l’opera in una sala delle Belle Arti. Quando Pico Cellini arrivò all’anteprima accompagnato da Giuliano Briganti, c’era già una folla di visitatori, quasi tutti burocrati delle Belle Arti che stavano in estasi davanti alla stele tarantina e facevano uno smodato uso dell’iperbole. Solo Pico non si era accodato al coro generale delle lodi. E ritornando a casa a piedi (non erano ancora stati rimessi in funzione i tram) confessò a Giuliano di essere in dubbio sull’autenticità dell’opera.

Il giorno dell’inaugurazione i pochi visitatori della mostra furono bloccati da un corteo che aveva in prima fila il presidente della Repubblica e Ranuccio Bianchi Bandinelli. Quella truppa cammellata percorse il lungo itinerario della mostra a passo lento, fermandosi buoni due minuti in raccoglimento davanti alla lastra. L’allestitore aveva fatto il possibile per valorizzare il marmo mettendo dietro un fondo di velluto nero e davanti all’opera un cordone d’oro retto da due pilastri, per evitare che i visitatori si accostassero troppo. Il corteo era passato da pochi minuti, quando fu visto un ometto infilarsi sotto il cordone, abbrancare il marmo alessandrino e dare con una lingua grossa e lunga, lustra come il manto di una foca, dei vigorosi colpi alla superficie del marmo. Ma i Carabinieri furono lesti nell’agguantare l’ometto per la collottola e nel farlo sparire come un coniglio nel cilindro di un prestigiatore.

Pico fu liberato poche ore dopo il suo fermo. La sera stessa ricevette una chiamata di Bianchi Bandinelli. Lo storico dell’arte era furioso: «Lei ha messo l’amministrazione delle Belle Arti in grande imbarazzo. Adesso ci deve spiegare il senso di quello che ha fatto». Pico aveva la tendenza alla teatralità che dicevano essere di famiglia. Era un tipo sempre allegro, ma quella volta si presentò da Bandinelli con un faccia cupa. «Cercai di mantenere la calma, racconterà poi Pico. Era un’occasione d’oro e non me la sarei fatta sfuggire. Il pomeriggio del giorno dopo alle sei in punto stavo in casa di Bianchi Bandinelli. Lui era un gentiluomo ma si lasciava anche fregare e suggestionare. Cominciai a parlare degli acidi, dati al marmo in tempi molto recenti. Il marmo all’inizio li aveva assorbiti e poi risputati in superficie dove stagnavano. Passandoci la lingua sopra non solo si sentivano, ma si poteva individuare la qualità e il tipo. I falsari li avevano certamente usati per modellare più rapidamente, ma esisteva la possibilità, remota, che fossero stati usati per ripulire la lastra. Mi sentivo magnanimo e passai ad altre prove contro: “Il marmo del bassorilievo è del tipo fasciato chiamato marmo del Proconneso. Ora questo tipo di marmo, mi permetto di far osservare, presenta delle fasce nere, anche grigie, che alterano la sua purezza. Lo hanno adoperato i Romani nel tardo Impero, i Bizantini anche per le statue. I Greci dell’epoca classica, mai. I Greci cercavano l’assoluto. Scolpivano sempre nel marmo pario o nel pentelico. Se trovavano una macchia, tagliavano il pezzo e inserivano un tassello. C’era anche una ragione pratica, artigianale, in questa ricerca di biancore completo. Il fondo bianco era necessario per l’«aganosis», la lucidatura di cera con cui gli artisti greci rifinivano le statue, per renderle come l’avorio e poi dipingerle. I lavori in scultura dell’epoca classica sono policromi a fondo bianco”». Venne servito il tè, poi Pico riprese: «Passiamo a un altro punto. La stele ha un timpano a forma di tetto, con due palmette scolpite ai due spigoli. Si chiamano acroteri. Nell’epoca arcaica e anche in quella classica la presenza degli acroteri era codificata da una norma. Se si scolpiva una palmetta al vertice del tetto, in posizione centrale, si poteva fare a meno delle palmette laterali. Ma se c’erano le laterali, ci doveva essere anche obbligatoriamente quella centrale. Invece qui manca. Non c’è perché allo scalpellino è venuto a mancare il materiale. Il coperchio del sarcofago aveva dimensioni limitate e la cuspide del tetto arrivava proprio dove il tetto finiva. La superficie rimasta non era sufficiente per scolpire la palmetta centrale e lo scalpellino non se ne era accorto».
A questo punto dal fondo del gruppo degli invitati, si sentì la voce di un archeologo del Vaticano che diceva: «Ne sutor ultra!». Era una frase in latinorum attribuita ad Apelle e riportata da Plinio il Vecchio con cui si mettevano a posto gli incompetenti che parlavano a vanvera. Pico diede un’occhiata al direttore generale, che si era fatto di marmo anche lui. Poi, fingendo di essere mortalmente offeso, pronunciò con voce chiara queste parole: «Anche se non ho la laurea e nemmeno uno straccio di qualsiasi licenza media, un po’ di latino l’ho imparato e ho riconosciuto la citazione. Ho capito che cosa mi vuole dire: “Ne sutor ultra”, “il ciabattino non vada avanti”, è troppo ignorante. Ma se sono così ignorante perché mi avete chiamato?». L’uscita dalla casa di Pico a piccoli passi, girando intorno a tutti i mobili, una camminata che ne mimava una famosa di Totò, è rimasta per anni nella memoria di chi aveva partecipato alla riunione. Una settimana più tardi la stele venne portata via da Palazzo Venezia.

Molti fanno iniziare da questo episodio la leggenda di Pico come personaggio unico e inimitabile nel mondo dell’arte. Pico non è stato solo uno dei più famosi cacciatori di falsi, forse il più grande «Fake buster» del mondo come diceva Thomas Hoving, direttore del Metropolitan Museum per molti anni. È stato uno straordinario restauratore e uno studioso dotato di un fiuto da bracco tedesco per ritrovare opere che sembravano perdute per sempre, come «Giuditta e Oloferne», oggi a Palazzo Barberini, e «La negazione di Pietro», due capolavori di Caravaggio. L’attività del restauratore e quella di ritrovare capolavori andavano a braccetto e si aiutavano a vicenda. È riuscito a trovare miracolosamente sotto una pittura bizantina che stava restaurando la più antica immagine della Madonna. Risaliva al tempo del Consiglio di Efeso nel 400 d.C., era una tavola di legno che raffigurava la Vergine con il Bambino, autentica manifestazione della madre di Dio (Theotókos) esaltata dal Consiglio: era dipinta coi colori in polvere stemperati nella cera liquida, secondo la tecnica dell’encausto, molto più raffinata della pittura a tempera. Numerose opere ritenute originali da notissimi studiosi non hanno passato l’esame del suo sguardo. Elenchiamo le più note: la «Madonna della Palma» attribuita a Raffaello, il Trono di Boston, il Cavallo di bronzo greco che si diceva essere un originale del VII secolo eliminato da Pico come una tarda copia romana; i famosi guerrieri etruschi che lui chiamava i mammozzoni; la Coppa Rospigliosi che si credeva fosse un’opera di Benvenuto Cellini e che Pico ridimensionò a lavoro fatto quarant’anni prima.

Federico Zeri e Pico Cellini andavano quasi sempre d’accordo nell’individuare i falsi. L’unico dissenso che ci sia mai stato tra loro riguardava il Trono Ludovisi che Zeri lodava e su cui Pico aveva invece molte riserve. Lo storico dell’arte sosteneva che l’amico aveva per le opere d’arte la «mirada fuerte» simile allo sguardo infuocato che i senoritos di Siviglia degli anni Venti applicavano alle senoritas che marciavano lungo il paseo e si fidava ciecamente di lui. Quando aveva qualche dubbio su un dipinto, lo chiamava dicendo: «Vie’ un po’ qua con quegli occhiacci tuoi». Aveva idee molto simili a quelle di Cartier Bresson per il quale la macchina fotografica non serviva solo a fissare per l’eternità un’immagine in un centesimo di secondo. Il suo compito era anche quello di riprendere il re quando era nudo.
Questa attitudine a riconoscere i falsi era una capacità affinata e continuamente allenata nei sessant’anni di lavoro come restauratore. Mentre i critici e gli studiosi dell’arte parlavano di forme, di Surrealismo e di Barocco ricorrente, di punti di fuga, di prospettive, di Manierismo, così Pico parlava di fondi oro, di colle, di tele, di acidi, di tempere, di bisturi e di acquaragia. In questo senso è stato un precursore e può essere avvicinato a Burri per il suo interesse nei materiali. Tutti e due avevano una passione per «le cose» attraverso le quali si concretizzava l’arte, con una differenza: Pico analizzava i materiali, già noti, ma mai veramente conosciuti per valutare se fossero congrui con l’opera. Mentre Burri li inventava: si era convinto che l’arte moderna per essere veramente tale doveva creare nuovi mezzi di espressione e non adagiarsi sulle tecniche del passato.
Lavorando come restauratore a Firenze Pico si era imbattuto in un numero inverosimile di falsi accreditati come veri dai soprintendenti e si era fatto la stessa opinione di una battuta: «I Corot autentici sono ottocento, di cui diecimila stanno in America».
In un mondo controllato strettamente dagli impiegati dello Stato dediti alla ricerca del potere o all’accademia o a tutt’e due le cose, Pico era un eccentrico solitario che lavorava senza aiuti, si fidava solo del giudizio di Federico Zeri, di Margherita Guarducci, archeologa diventata famosa per aver scoperto la tomba di Pietro all’interno della Basilica, e di Giuliano Briganti. Nato a Siena da una famiglia poverissima era stato costretto a immigrare a Firenze dove aveva cominciato a lavorare come apprendista truccatore e decoratore. Nelle sue ore libere frequentava la figlia di Pio Riccardi che diventerà in seguito uno dei più celebri falsari di Italia insieme ad altri fratelli e nipoti e un ragazzo giovanissimo, Alfredo Fioravanti, che sarà uno degli assistenti più dotati di Pio. Il giovane apprendista aveva fatto la sua università nel quartiere di San Frediano di là dell’Arno, frequentando i pranzi domenicali che i Riccardi offrivano a tutti i loro lavoranti. Erano delle vaste tavolate dove ognuno raccontava dell’ultima opera che aveva fatto. E i dialoghi che si intrecciavano erano del genere: «Oh tu com’ha fatto a fare quel vaso di bronzo etrusco?». «Semplice ho preso una grattugia di bronzo, ho chiuso i buchi con le gocce di stagno e ne ho fatto una lastra che poi ho modellato». Pico ha sempre ricordato quegli anni a Firenze come i più felici della sua vita. E diceva che i Riccardi erano i migliori del ramo, che non si sentivano dei falsari ma erano rimasti sempre degli artigiani. La divisione delle opere non era tra quelle vere e quelle false, ma tra lavori riusciti e lavori non riusciti. Nella tradizione italiana il concetto dell’artista che fa nascere dal nulla i suoi capolavori non esisteva. Tutti i lavori venivano eseguiti a più mani e il titolare della bottega pensava all’impostazione generale dell’opera, mentre il viso e gli occhi venivano dipinti da chi aveva il tocco più delicato e fermo. Perché quelli erano i dettagli dove si rivelava il genio.
I fratelli Riccardi avevano cominciato come orefici da fiera specializzati in orecchini d’oro e coralli per le balie. Avevano aperto un negozio di roba a Tordinona a Roma, accanto a un locale di balie gestito da una sensale chiamata la Manderina. Il racconto che ne faceva Pico era esilarante: quando veniva qualcuno a chiedere delle balie, la proprietaria faceva un fischio alla pecorara rivolto alle ragazze che stavano sopra le panche come a covare l’ovo. Si diceva: «Bella mora fa vede’ quanta roba tieni» e quella tirava fuori la zinna enorme e faceva uno schizzo di due metri. Queste balie erano tremende, avrebbero fatto qualsiasi cosa per un paio di orecchini di corallo. Quando il padrone era in casa e la moglie non vedeva, la balia gli prendeva in bocca il piselletto per farlo diventare duro e diceva a voce alta «che bello cazzo che tiene questo pupo, è come quello del padre». E naturalmente il padre contento gli regalava i coralli.

Gli anni d’oro dei falsi vanno dai primi del secolo al 1940. All’inizio di quel periodo le contraffazioni presero un andamento vertiginoso, seguendo gli originali come i pesci pilota seguono gli squali. Questo aumento era dovuto all’intervento molto pesante nel mercato dei musei americani, spalleggiati dai magnati come Rockefeller, William Randolph Hearst, Philip Lehman, Collis Potter Huntington, Henry Clay Frick, Walter Chrysler, Andrew Mellon e J.P. Morgan. Dopo aver passato una vita a combattersi usando metodi spietati, gli uomini più ricchi del mondo, ora liberi da impegni più pesanti, erano diventati collezionisti e acquirenti molto ricercati, ma nessuno di loro era stato folgorato da un improvviso amore per le belle arti e avevano una modesta conoscenza della pittura europea. Fino a quel momento gli unici quadri che apprezzavano erano i landscape romantici del West oppure gli stupendi acquerelli degli indiani delle pianure disegnati da Catlin durante il viaggio lungo il Missouri della spedizione Lewis & Clark. Ora il collezionismo era diventato di moda, in particolare quello dei quadri, e una signora dell’alta società di Boston, Isabella Gardner, era diventata famosa pagando centomila dollari «Il ratto d’Europa» di Guido Reni, vendutole da Lord Duveen. All’epoca non tutti sapevano che «B.B. il saggio dei Tatti», riceveva cinquantamila sterline l’anno dal suo socio in affari Joseph Duveen per firmare le expertise che dovevano avallare l’originalità delle opere da vendere agli americani. Bernard Berenson era ritenuto un eccelso conoscitore dell’arte italiana e le sue expertise valevano più del loro peso in oro. Quando sono andato tempo fa a visitare Villa I Tatti a Fiesole ho notato attaccati in una parete poco visibile dei fondi oro senesi del Trecento. Questi li aveva dipinti con tutta probabilità Federico Joni, celebre falsario della fine dell’Ottocento che rifaceva a perfezione i fondi oro del Trecento senese.

L’unico che non comprò mai un quadro fu Henry Ford, il padre padrone delle officine Ford, che avevano come scopo quello di dare un’automobile a tutti gli americani. Una volta Duveen preparò degli album lussuosamente rilegati in marocchino rosso che riportavano le fotografie dei quadri della sua collezione, sperando che Ford ne comprasse qualcuno. Ma il magnate di Detroit, che aveva molto forte il senso dello humour, fece finta di credere che Duveen fosse lì per vendere non i quadri ma gli album, e ne comprò uno.

Gli americani non si fidavano dei mediatori italiani (che ritenevano ladri disonesti, un branco di famelici commercianti), non acquistavano direttamente le opere dei pittori italiani o provenienti da scavi etruschi, ma si servivano di soi-disant esteti e conoscitori anglosassoni. Questi costituivano un gruppo molto variegato di signori che avevano la passione dell’arte e campavano in Italia aiutati da un cambio favorevole. Per molti di loro l’iniziazione alla bellezza era arrivata leggendo Ruskin. Non avevano una vera cultura, ma conoscevano il mondo dell’arte con sufficiente sicurezza per essere creduti dai magnati americani. Avevano capito che non dovevano proporre lavori eccelsi o raffinati ma opere sorprendenti che destassero meraviglia. I musei americani a quel tempo erano una sorta di baracconi gestiti da personaggi magniloquenti che avevano come nume tutelare, non Washington, non Lincoln, ma Barnum. I Riccardi erano in contatto con l’ex agente per gli acquisti del Metropolitan, John Marshall, al quale avevano venduto un pezzo autentico, comprato subito per un prezzo modesto dai tombaroli della zona di Orvieto, un piccolo balsamario protocorinzio a forma di testa di guerriero. Il pezzo era piaciuto molto all’americano, che l’aveva comprato subito, e poi aveva detto: «Questi reperti sono belli, ma per un grande museo come il nostro non bastano. Bisogna che troviate pezzi grandi, grandi, grandi».

Pico raccontava che a sentire questi discorsi i Riccardi si sfregavano le mani: «E così fecero guerrieri etruschi, due mammozzoni che erano un castigo di Dio, così falsi e così sproporzionati che gridavano vendetta». Prima di essere acquistati dal Metropolitan, arrivò un tecnico della cottura delle maioliche per accertare il materiale con cui erano fatti i mammozzoni; l’indagine fu molto accurata e alla fine il tecnico disse che non aveva mai visto un cotto così perfetto. A questo giudizio si accompagnò quello della Gisela Richter, un’archeologa tedesca che dirigeva la sezione dell’arte antica al Metropolitan Museum. In un libretto scritto per l’occasione la Richter aveva detto che le due statue non erano solo un capolavoro nel senso estetico, ma una performance di alta tecnologia: ogni parte della statua risultava cotta alla stessa temperatura, operazione che riusciremmo a eseguire con difficoltà anche oggi.
La «cretina, diceva Pico, non aveva capito che i Riccardi non avevano cotto il bove intero: avevano cotto le bistecche». Prima avevano modellato le statue con la creta e poi le avevano frantumate in pezzi non più grandi di 20-30 cm e li avevano messi in forno tutti insieme. Ecco perché erano cotti tutti alla stessa temperatura.
Con gli anni i Riccardi si allargarono ad altri campi: forse si erano un po’ montati la testa e pensavano di poter contraffare tutto. Ma i bronzi erano rimasti la loro specialità: loro erano nati orafi e nella fusione ritrovavano l’anima di metallari. Il materiale primo se lo procuravano andando in giro la domenica mattina. Come altri cercavano lumache o funghi tra le radici dei faggi dell’Amiata, loro avevano occhio solamente per rottami di bronzo o di rame, vecchie caldaie scoppiate, lamierini contorti e abbandonati negli scarichi ferroviari della Toscana. Rifacevano l’intero pezzo ritagliando le lastre delle caldaie con le sfoglie di un lamierino messe una sopra l’altra e battendole su un’anima di legno con dei martelletti di loro invenzione. Dal toc toc di quei martelletti nacque una biga intera, quella al British Museum per l’esposizione intitolata «Fake», a lungo ritenuta autentica. La stava per comprare il Museo Etrusco di Villa Giulia a Roma. «Se ripenso a quegli anni felici, ricordava con nostalgia Pico, il pranzo la domenica con la ribollita e alla fine come dolce il castagnaccio o i necci che venivano da San Marcello Pistoiese se era il periodo di Natale, posso dire che sono stato fortunato. Erano i migliori del ramo e parlavano liberamente, perché erano orgogliosi del loro mestiere e se ne vantavano».

Sarebbe uno sbaglio limitare Pico a queste attività vagamente provinciali e paesane. La sua parlata pesantemente romanesca nascondeva una cultura immensa che il restauratore si era formata frequentando non il mondo accademico ma personaggi anche loro non inquadrati nell’esteticamente corretto, come Giuliano Briganti, che veniva chiamato da Federico Zeri, altro grande frequentatore di Pico, «lo smidollato di via della Mercede» perché aveva confessato di non saper dire di no. E per questo era stato costretto ad andare da uno psicanalista. Poteva succedere che a cena da Giuliano fosse presente Pico ma non Zeri e in quella situazione arrivava sempre la telefonata del grande storico assente che fingeva di essere la lavandaia dove i Briganti mandavano a lavare la biancheria. «Senta, sono la lavandaia, diceva con una voce nasale completamente artefatta, avete mandato le mutande: sono un po’ sporchette, ma che? Non ve lavate?». Poi, dopo essere stato smascherato da Giuliano, che riceveva queste telefonate almeno una volta al giorno, diceva «Vuoi sentire il mio testamento in versi?». E attaccava senza aspettare la sua approvazione: «Il mio ginocchio dai muscoli grandi / sia messo in c... a Cesare Brandi. Il mio pital dove gli stronzi van / sia lasciato a Carlo Giulio Argan».

Negli ultimi anni Cellini preferiva allo svelamento dei falsi la ricerca di opere scomparse e mai più ritrovate: «Quando da ragazzo ho iniziato a restaurare avevo dei protettori amici di famiglia. Uno di questi era il senatore Corrado Ricci. Un giorno di moltissimi anni fa Ricci mi chiamò dicendomi di volermi mostrare un quadro di un amico, un bel Gentileschi che aveva un buco, era molto sporco e andava ripulito. Così andai con il senatore in una via, che era poi via Giulia, ma dovetti ricostruire l’itinerario perché mi portava il senatore e io ero distratto. Arrivammo a una vecchia casa all’ultimo piano dove ci aprì un vecchietto con la papalina. Ci mostrò un quadro sporchissimo ma che mi fece grande impressione. Dovevo restaurarlo, poi non se ne fece più nulla per motivi che non ho mai saputo. Venticinque o trent’anni più tardi Roberto Longhi mise insieme a Milano una famosa mostra di Caravaggio che portò finalmente un po’ di chiarezza tra le opere autentiche e tutti quei dipinti caravaggeschi che pretendevano di essere di mano del maestro.
Andai all’inaugurazione e la sera stessa tornai a Roma in treno. A un certo punto mia moglie si mise a leggere il catalogo della mostra. Quando arrivò a “Giuditta e Oloferne”, con la descrizione del quadro scomparso che nessuno vedeva da oltre un secolo, mi venne subito in mente il quadro del vecchio con la papalina. Passai settimane per rintracciare il percorso fatto oltre trent’anni prima. Cominciai a chiedere ai portieri informazioni. Ma questi non si rivelarono molto disponibili, come tutti i portieri romani. Chiedevano sempre sospettosi: “Ma che vole?”, perché credevano che fosse una scusa per vendere a domicilio. Dopo qualche mese finalmente trovai un portiere che si ricordava qualcosa e disse che all’ultimo piano abitavano tre famiglie. Mi diede i nomi e io cominciai a telefonare, ma all’inizio mi rispondeva un numero sbagliato mentre gli altri non rispondevano per niente. Finalmente trovai un signore che sembrava interessato e che alla prima domanda non rispose, poi, dopo che stavo parlando da più di dieci minuti, disse: “Sono tornato dal Sudamerica da pochi giorni e lei mi sta descrivendo con un’esattezza direi diabolica una scena che avevo dimenticato, perché allora ero così piccolo! Qui tutto è rimasto come allora, esattamente come lei l’ha descritto. Venga subito e ci incontriamo. Più tardi feci fare delle fotografie al dipinto che avevo ritrovato: era sicuramente un Caravaggio. E le portai a Longhi. Tra queste c’erano molti particolari, perché Longhi ci aveva insegnato a esaminare le opere cominciando dalla periferia e solo dopo addentrandosi nel tema principale. Vedendo queste foto, Longhi si eccitò subito e cominciò a gridare: “Ma dove ha trovato questa roba? Ma è incredibile... Ma mi faccia vedere!” E io continuavo a mostrargli i particolari e lui sempre più eccitato diceva: “Ma lasci perdere i particolari e mi dia la foto intera!”. Io rispondevo “Ma professore ce l’ha insegnato lei questo metodo”. “Ma quale metodo, questo è Caravaggio, Caravaggio!”. Telefonò subito davanti a me al ministro per annunciargli la scoperta di un suo allievo, disse proprio così, chiedendo la proroga della mostra di altri due mesi».
L’altro Caravaggio scoperto da Pico è «La negazione di Pietro», apparteneva a una Caracciolo di Napoli, ma Longhi aveva sentenziato che si trattava di un Battistello e non l’aveva ammesso alla mostra di Milano. «Io venni chiamato qualche tempo dopo dalla Caracciolo, racconta Pico, per restaurarlo e pulirlo. Era veramente uno splendore, ma aveva un fondo nero ancora poco convincente. Intuivo che fosse un Caravaggio e portai di nuovo Longhi a Napoli e lui fu gentile come al solito, ma quel fondo nero non lo convinceva: “Pico non lo vede che questo quadro non respira? Lei ha fatto un lavoro magnifico, ma si metta bene in testa che questa è una copia di un originale perduto”. Io non ero riuscito a convincere lui ma lui non era riuscito a convincere me. Perché sapevo che era Caravaggio: la tela, gli impasti, il modo con cui tracciava le linee, tutto faceva riferimento a questo grandissimo pittore. Mi sono armato di una pazienza infinita e ho cominciato a guardare il dipinto a luce radente servendomi del microscopio. Ho visto sul fondo dei rilievi che non avevano alcuna ragione di essere. Con il bisturi ho cominciato a raschiare e a un certo punto, sotto la pressione della lama, è saltata via la crosta e da sotto sono comparsi dei punti rossi, rosso vivo, rosso sangue. Allora ho pensato che dovevo correre più rischi e ho continuato a raschiare con il bisturi e dopo un po’ sono apparse piccole fiammelle e questa scoperta mi ha incoraggiato ad andare avanti e finalmente è apparso un camino acceso. I punti rossi erano le faville, e la scena corrispondeva perfettamente al testo del Vangelo che dice che Pietro fece la negazione in una casa privata davanti a un caminetto dove si erano rifugiati dei militari. Allora Longhi, che era veramente un uomo straordinario, non perse tempo a scusarsi: come entrò nel mio studio e vide il quadro restaurato disse: “Ha ragione lei, è Caravaggio. Dica alla contessa che se viene a Firenze le faccio la perizia”. Allora la Caracciolo prese il quadro e da sola come Cappuccetto Rosso andò a Firenze. La colpa è stata anche mia che non l’ho accompagnata. Insomma strada facendo ha incontrato il lupo e il quadro è stato trafugato e venduto per un pezzo di pane».

Come molti autodidatti, Pico Cellini aveva la tendenza a trasferire in teorie l’immensa esperienza e la sua lunga pratica nel sottobosco del mercato dell’arte, che poi in Italia tanto sottobosco non era. La più sperimentata tra queste teorie che aveva assunto i connotati di una costante antropologica aveva un nome: «Il tappetino». Pico diceva che non era quasi mai la buona qualità del falso a spingere definitivamente il compratore all’acquisto, ma l’apparato scenico connesso alla vendita, che trasformava l’oggetto in qualcosa di simile a un mito, sia pure fasullo (ma il compratore non se ne avvedeva che era fasullo). Stiamo parlando di anni prima della seconda guerra mondiale, quando non esistevano metodi scientifici per accertare l’imbroglio o erano primitivi e non sicuri. Le expertise, un’invenzione geniale di critici e storici dell’arte per guadagnare finalmente dieci volte tanto il loro magro stipendio statale, in realtà certificavano solo se stesse e molte erano dubbie: chi non ricorda i famelici mercanti con le dichiarazioni di autenticità in tasca, in attesa dietro la porta della stanza dove Roberto Longhi stava giocando a poker? Quando aveva finito le fiches sul tavolo, l’illustre critico era capace di firmare qualsiasi cosa. Subito dopo la prima guerra mondiale circolavano ancora nel mondo dell’arte personaggi in via di estinzione, già visti in altre epoche, a metà tra i venditori di lozioni e i cagliostri di provincia: inventori e incantatori di attitudini così teatrali che oggi sarebbero insopportabili e provocherebbero l’effetto contrario. Ma che allora affascinavano come i guru del tipo «a me gli occhi» arrivati dal Caucaso o dall’Armenia particolarmente convincenti per tutto un settore femminile. All’epoca Pico non aveva ritrovato e restaurato «Giuditta e Oloferne» di Caravaggio e «La negazione di Pietro» sempre di Caravaggio e non aveva sfidato l’intero corpo accademico di soprintendenti e conservatori italiani delle Belle Arti, liquidando «La Madonna della palma» attribuita a Raffaello come un falso evidente, o mettendo alla gogna due fondi oro che stavano ai Tatti, portati addirittura da B.B., cioè da Bernard Berenson. Pochi conoscevano veramente le sue capacità perché aveva una fama che non andava oltre un certo giro e Pico poteva operare con quella libertà che più tardi gli sarà difficile riavere.

Tra questi falsari melodrammatici, il più dotato era un commerciante levantino che aveva vissuto a Istanbul. Si diceva che avesse fatto un’enorme fortuna comprando a poco prezzo l’unica cosa di valore che i russi avevano portato nella loro fuga dall’armata rossa: i gioielli. Era una storia che lasciava qualche dubbio perché i gioielli sembravano fasulli e come rifatti da artigiani modesti. Il commerciante si chiamava Venizelos, viveva a Roma e aveva un tenore di vita lussuoso e di pessimo gusto. Le vittime dei suoi raggiri erano infinite e quella più illustre era un banchiere per bene, una specie rarissima in ogni tempo. Pico l’aveva conosciuto casualmente e da allora cercava di difenderlo dagli imbrogli non di estranei ma dei suoi due figli. «Questi ragazzi, già grandicelli, andavano spesso a Parigi a fare lo sci-sci, dicendo che uscivano con delle ragazze perbene, raccontava Pico. Invece erano zoccole, che avevano adocchiato i polli e li portavano nei locali per i pranzi “alla russa”, che poi i proprietari non erano russi ma georgiani. Certi briganti con baffoni che facevano pagare ogni bicchiere di “cristallo” gettato nel caminetto. Finiti i quattrini i lazzaroni andavano dai rigattieri a comprare un “Perugino” o un “Canaletto”, avendo come unica autentica quella di Venizelos. Tutti i quadri comprati dai figli del banchiere erano esposti in una galleria dalle parti della stazione Termini, chiamata “F. come Fake” perché era composta tutta di falsi. Non c’era nemmeno un dipinto autentico, avrebbe stonato. La Galleria veniva visitata unicamente da altri banchieri, stretti amici del proprietario, e da uomini politici che conoscevano solo un nome di artista: William-Adolphe Bouguereau, il re dei pompiers. Ogni volta che si fermavano davanti a un quadro, i visitatori dicevano: Bello bello, sembra Bouguereau”. Il commerciante aveva due belle ragazze molto giovani a sua disposizione, chiamate “le baiadere” dal portiere. Lui le presentava come “le contesse, sue nipotine”. Fifì, la più grande, bruna, slanciata e nello stesso tempo formosa, portava i capelli come la Turandot, a giri concentrici in modo da formare una torre simile a quella di Babele nell’incisione di Athanasius Kircher. Un giorno Giuliano Briganti in visita le disse: “Contessa, sembra proprio la Turandot” e lei: “Sì perché semo ’rientali”. Disse proprio così: “Semo ’rientali” e Giuliano rispose : “Sì, ad oriente di Frosinone”. Lo zio, cioè Venizelos, aveva tra le mani una copia di Leonardo, restaurata più volte. I restauratori li conoscevo tutti e stavano sempre lì a dipingere modifiche sotto i comandi suoi: “Tiri giù, tiri su, più morbido, più sfumato. Una volta uno gli rispose: “Se sapessi fare come Leonardo mi metterei in proprio”. La copia era collocata su un cavalletto coperto da una tendina in fondo a un salone. Quando il cliente entrava, se non era accompagnato dalla moglie, compariva anche Fifì, adorna di veli. Girava a piedi nudi, faceva tremolare i seni sotto le leggerissime camicie di seta, accendeva l’incenso, poi si accosciava per terra alla turca. Come genere eravamo tra il casino e D’Annunzio. Verso le quattro e mezzo del pomeriggio veniva servito il tè. Era a quel punto che i clienti cominciavano a guardare le opere esposte: Susanna e i vecchioni, ratti d’ Europa, ninfe e baccanti, vergini sacrificali e moltissime schiave che attingevano l’acqua dalle fontane con le brocche, mostrando parte del seno e anche dei culi elastici e “glorious”, come dicevano gli inglesi. Se qualcuno chiedeva modeste informazioni di qualsivoglia genere alla Fifì, questa mandava un trillo acuto di gola per avvertire Venizelos, che si presentava subito. Sembrava un artista, col viso atteggiato con un’espressione da sognatore, mentre era assolutamente il contrario. Poi cominciava a parlare, ininterrottamente, con un tono basso, sempre uguale, servendosi di una voce ipnotica come una nenia. Non conosceva pause ed esitazioni e dopo un paio d’ore il cliente si adagiava su questa voce pronta a tutto. Il colpo finale veniva assestato da Fifì che andava a tirare su la tendina del Leonardo. Il fatto che non fosse in vendita ne garantiva l’autenticità e Venizelos aggiungeva che lo aveva promesso a Goering. Per un paradosso frequente nella storia dell’arte, alla fine i tedeschi comprarono realmente la “Venere”, attraverso la mediazione del principe d’Assia. Chi avrebbe osato dire a Goering che si era andato a scegliere un falso? Con i quattrini della vendita Venizelos si comprò un’abbazia abbandonata sul Canal Grande a Venezia che restaurò completamente e lì si trasferì fino alla fine dei suoi anni».

Le storie che riguardano Pico sono infinite. Ma una delle più curiose, talmente stravagante da sembrare inverosimile, era quella che riguardava la scomparsa del prepuzio di Gesù custodito nei Musei Vaticani. Pico era molto amico del direttore del Museo Cristiano del Vaticano, un uomo di straordinaria intelligenza e cultura, tedesco, per metà ebreo da parte di madre. Ma era la parte che contava in Germania durante il Nazismo e così lasciò la direzione del museo di Berlino, settore medievale, e venne a Roma su invito di papa Ratti. «Mi ero rivolto a lui, raccontava Pico, per avere un parere definitivo su alcuni pezzi importanti come la croce chiamata “Il re dei confessori” sulla quale Thomas Hoving scrisse un libro che gli costò la direzione del Metropolitan. Un giorno il mio amico mi chiamò al telefono con voce disperata, dicendomi che era sparito il cofanetto che conteneva il prepuzio del Bambino, ossia il prepuzio di Gesù Cristo, una delle reliquie più sacre e più dubbie di tutta la Cristianità. Il prepuzio era rimasto per secoli sotto la scala del Sancta Sanctorum di San Giovanni in Laterano. Per proteggere il cofanetto, l’orafo l’aveva avvolto e incapsulato dentro tre involucri uno dentro l’altro. Il primo involucro era d’argento a forma di croce, il secondo aveva un coperchio smaltato di tipo cloisonné, il terzo era gemmato con pietre dure, la maggior parte ametiste non lavorate o lavorate a ciottolo, di gusto barbarico o tardo romano. I cristiani avevano mille volte maledetto il lusso ostentato degli imperatori pagani, ma si ritrovavano a ostentare lo stesso lusso per gli oggetti a loro più sacri. In questa terza teca erano raccolti alcuni frammenti della Vera Croce. Già a suo tempo Calvino (non l’autore del Barone rampante, ma il profeta del Protestantesimo) aveva detto che le reliquie della Vera Croce erano così numerose che non sarebbero bastate trecento persone a trasportarle. Solo a Roma parti della Croce sulla quale era morto Gesù Cristo si trovavano a Santa Croce, a San Pietro, a San Marcello, a Santa Maria in Trastevere, a Santa Sabina, a San Paolo. Il popolino diceva che un frammento era stato murato dentro l’obelisco di San Pietro. Altri se ne trovano a Parigi nella Sainte- Chapelle, a Saint-Germain-des-Prés e in altri posti.
La terza teca, quella gemmata con pietre dure, conteneva una reliquia ancora più rara e preziosa. Sollevando la gemma centrale di forma ovale incastonata al centro della teca si scopriva il santo prepuzio di Gesù Cristo. La reliquia era stata rubata da un soldato dell’armata di Carlo V nel 1527, durante il sacco di Roma, poi recuperata miracolosamente, perduta di nuovo, ritrovata ancora e sistemata in Laterano e infine messa sottochiave nel Museo Cristiano del Vaticano. Una volta, in determinate occasioni, il papa apriva questa scatola e ci versava sopra un balsamo fatto di cera e profumi. Questo balsamo formava una crosta bianca sopra le gemme. E ora questa reliquia preziosissima era scomparsa dalla vetrina infrangibile fatta fare in Germania appositamente. La chiave era di competenza del direttore del Museo Cristiano, veniva riposta la sera dentro una cassetta blindata, murata nella camera dello studioso. Per rubarla, il ladro doveva forzare lo studio, scansare un quadro dalla parete, scassinare lo sportellino, prendere la chiave, con questa andare ad aprire la vetrina e fare il percorso inverso senza che nessuno se ne accorgesse». Diceva Pico che nemmeno Mandrake, con l’aiuto di Lothar, sarebbe riuscito in un’ impresa simile. «Il mio amico pensò subito che il furto era stato progettato all’interno del Vaticano. Erano in molti a non amare le reliquie. Io non sarei così sbrigativo nell’eliminarle tutte. Se avessi avuto un nonno, sarebbe stato bello ritrovare, quando lui non ci fosse stato più, il suo bastone, la sciarpa, un paio d’occhiali. Sono cose che suscitano un ricordo vivo e alle quali uno rimane affezionato. Ci sono certe reliquie poi di cui non vale la pena parlare, come l’ampolla che conteneva il fiato del bue e dell’asinello. Per qualche misteriosa ragione le reliquie del prepuzio sono particolarmente diffuse in Francia. Numerosi anni prima il mio amico aveva avuto un’interessante conversazione con l’abate di Charroux che aveva parlato di un culto non ortodosso. Ma l’idea che fosse stato un furto pensato all’interno del Vaticano era solo un’illazione vagamente blasfema. Qualche tempo dopo lo studioso tedesco mi fece un’altra di quelle telefonate concitate alle quali negli ultimi tempi mi ero abituato. “La vetrina è stata rimessa a posto da qualcuno. È impeccabile, ma senza la teca”, disse. Gli chiesi se non si ricordava di aver dato lui l’ordine. “Non ho mai dato un ordine del genere”, aggiunse, chiedendomi se era possibile vederci di nuovo. Questa volta lo trovai calmissimo, quasi gelido. “L’ordine è venuto dall’alto. Il mondo moderno non sa che farsene di una religiosità devozionale, biascicante di latinorum, affidata non alla fede ma all’ignoranza delle plebi. I gesuiti del Seicento che andavano in Cina attraverso i passi himalayani, al confine con il grande impero di Mezzo, furono fermati da un ordine perentorio dell’imperatore e non sarebbero mai passati in Cina con tutte quelle reliquie che si trascinavano dietro. Se volevano arrivare a Pechino dovevano prima sbarazzarsene. Quella del prepuzio è una storia simile”. Gli chiesi se a questo punto aveva individuato la fonte dell’operazione. Rispose: “Non posso dire nulla, ma le manderò un libro”». Un paio di settimane più tardi Pico trovò in portineria un pacco. Dentro c’era un libro di Mario Soldati. Si ricordò di averlo letto molti anni prima. Era bellissimo, un’opera di vera narrativa più che un romanzo. Si chiamava L’amico gesuita.

Un ritratto di Pico Cellini (Roma, 1906-2000), di genere anacronistico o neofigurativo, dipinto da un suo vecchio allievo e amico, Bruno di Maio, con il quale aveva restaurato molte opere

Redazione GDA, 11 febbraio 2015 | © Riproduzione riservata

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