Antonio Aimi
Leggi i suoi articoliBisogna ammetterlo: un conto è sapere che gli Inca, come molte altre popolazioni del mondo facevano sacrifici umani, un altro conto è vedere la faccia del sacrificato, soprattutto quando si vede che la persona sacrificata non è un guerriero catturato in guerra ma un’innocente ragazza di circa 14 anni. Questo radicale cambiamento nella nostra percezione emotiva è dovuto alla ricostruzione del volto di Juanita (il nome, ovviamente, è convenzionale), la giovane il cui corpo quasi mummificato fu ritrovato 28 anni fa a oltre 6mila metri di altezza sulla vetta dell’Ampato, un vulcano spento del Perù meridionale.
La ricostruzione del volto e del corpo della ragazza, deceduta probabilmente tra il 1432 e il 1532, è dovuta agli specialisti del Ceauv (Centro de Estudios Andinos de la Universidad de Varsovia) e della Ucsm (Universidad Católica de Santa María) di Arequipa, la città nella quale si trova il museo che conserva la mummia. Come si può immaginare, la notizia ha avuto un grande impatto, anche se, a dir il vero, il lavoro fatto, pur molto importante sul piano emotivo, non ha aggiunto dati nuovi a quanto già era noto, perché la mummia era già stata al centro di parecchie ricerche.
Infatti, si sapeva che era stata uccisa con una mazza da guerra che le aveva spaccato la testa, che un anno prima di essere sacrificata aveva cominciato a godere della dieta ricca di proteine animali delle élite e che in occasione del sacrificio non era molto lucida per essere stata costretta a masticare una notevole quantità di foglie di coca e a bere molta «chicha» (bevanda alcolica a base di mais fermentato).
Inoltre, si sapeva che Juanita indossava i vestiti tipici delle donne della capitale inca e che aveva un corredo funerario con spille e figurine d’oro e d’argento, con conchiglie e 37 oggetti di terracotta decorati con motivi geometrici.
Fin da subito, inoltre, era apparso evidentissimo che Juanita era stata uccisa nella cerimonia del «Capac Cocha», un rituale che gli Inca praticavano in luoghi particolari o sulle cime delle montagne, che rappresentavano il territorio dell’impero e che erano espressione di divinità (gli apu) particolarmente potenti.
Sembra, inoltre, che queste montagne non fossero scelte a caso, ma anche in funzione dei particolari allineamenti che, in certi periodi dell’anno, soprattutto durante i solstizi e gli equinozi, si presentavano al sorgere e al tramonto del Sole. Da quel poco che emerge dalle cronache sembra che questa cerimonia fosse fatta solo in occasioni particolari come l’ascensione al trono dell’imperatore, la sua morte o per fermare disastri naturali.
Di una di queste cerimonie scrive il cronista spagnolo del Cinquecento Juan de Betanzos: «L’imperatore Inca Yupanqui ordinò ai nobili di Cusco di preparare entro dieci giorni offerte di mais, lama, tessuti pregiati e un certo numero di bambini e bambine per fare un sacrificio al Sole. Passati i dieci giorni, Inca Yupanqui ordinò di fare un grande fuoco, in cui furono gettati i tessuti, il mais e i lama che erano stati preventivamente sgozzati. I bambini e le bambine che erano stati riuniti, tutti ben vestiti, furono invece sepolti vivi in quell’edificio speciale che era stato costruito per adorare il Sole».
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