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Francesco Stocchi. Foto Flaminia Nobili

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Francesco Stocchi. Foto Flaminia Nobili

Francesco Stocchi: «Venite a danzare col MaXXI»

Il nuovo direttore artistico del museo rilascia al «Giornale dell’Arte» la prima intervista in esclusiva

Guglielmo Gigliotti

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Il MaXXI che guarda sé stesso: il nuovo direttore artistico del Museo nazionale delle arti del XXI secolo, Francesco Stocchi (entrato in carica il primo settembre 2023), intende partire dal luogo, valorizzandone le qualità spaziali mediante le opere, e viceversa. «Il museo non è più il tempio delle muse, asserisce, sta cambiando natura, e sta in generale diventando luogo elastico, dinamico e aperto. Suo fulcro non sono più le opere e le mostre, che pure sono importantissime, ma il pubblico. Il problema non è più cosa esporre, ma il come. La mostra deve essere una traduzione di un discorso in cui l’opera d’arte si interrela con lo spazio che la ospita, vivificandolo. Così sarà per le mostre dei prossimi mesi».

La prima è «Ambienti 1956-2010. Environments by Women Artists II», dal 10 aprile al 20 ottobre, a cura di Andrea Lissoni, Marina Pugliese e lo stesso Stocchi, che spiega: «È lo sviluppo di una mostra curata da Lissoni e Pugliese all’Haus der Kunst di Monaco, dove gli ambienti di artiste, sovente cancellate dalla storia, si fermavano al 1976. Noi facciamo crescere il discorso fino al 2010, che è anno di nascita ufficiale del MaXXI, la scultura architettonica di Zaha Hadid, che considero realtà attiva e partecipativa. Con l’apporto a Roma di artiste quali Micol Assaël, Monica Bonvicini, Kimsooja, Christina Kubisch, Nalini Malani, Pipilotti Rist, Martha Rosler ed Esther Stocker, abbiamo modo di dispiegare quella rivoluzione dell’arte ambientale avviata dagli anni ’90 in poi in senso relazionale, in cui l’opera si rapporta con lo spazio pubblico e con il pubblico, tra temi di impegno politico-civile e immersività delle emozioni, dove prende piede il dialogo diretto tra società e istituzione museale. Più che una mostra, “Ambienti 1956-2010”, è un manifesto programmatico di una visione di museo, in cui si esce definitivamente dal rapporto secco e binario opera-fruitore, per una condizione aperta, libera, con il pubblico come parte attiva dell’opera, in cui ciascuno inventa la sua danza. Bisogna imparare a danzare col MaXXI».

Anche la grande antologica di Giovanni Anselmo, che aprirà a giugno con il titolo «Oltre l’orizzonte», curata da Gloria Moure, incarna questo spirito: «È una mostra pensata prima della dipartita di Anselmo, nel dicembre ’23. Ne era felicissimo, racconta Stocchi. Anche con le sue opere incardineremo un discorso con lo spazio, come abbiamo fatto con Kounellis, nella mostra aperta a dicembre nella Galleria 5 del MaXXI, grande ambiente tipicamente zahadidiano che culmina con una vetrata panoramica. Tutto ciò è stabilito in piena sintonia col presidente della Fondazione MaXXI Alessandro Giuli, e in perfetta concordia con il tutto il team del MaXXI».
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La mostra di Rosa Barba nel 2025, sarà diretta dimostrazione della religione spaziale e dialogica di Francesco Stocchi, che curerà programmaticamente l’esposizione con la sensibilità affermatasi, spiega lui, proprio con la generazione degli anni ’90, la generazione di Rosa Barba (n. 1972) e sua (n. 1975): «Negli anni ’90 avviene un cambio di paradigma. Il mondo dell’arte, da nicchia elitista si espande al mondo. Cambia l’intero clima, il senso delle mostre, del museo, del pubblico, e questo ora il MaXXI lo recepirà in pieno. Perché lì, per me, è la chiave di lettura dello stato attuale delle cose».

Anche le mostre di architettura «saranno sviluppate all’insegna della continuità tra spazio e oggetto, come condiviso dalla direttrice di MaXXI Architettura Lorenza Baroncelli. Le due colonne del museo, arte e architettura, a cui si aggiunge ora anche il design, si devono avvicinare. Già con la mostra di Maria Giuseppina Grasso Cannizzo abbiamo ricusato il modello della mostra di documenti e modelli, surrogati dell’architettura, per la rappresentazione dinamica dei temi cari alla protagonista mediante una installazione site-specific». È quanto avverrà con «Pensare Astratto» a cura di Italo Rota, luglio-ottobre 2024 (dai progetti esoterici di Terragni fino all’atomo secondo Fermi), e con «InMotion», a cura dello studio Diller Scofidio + Renfro, in programma da fine 2024, dove verrà esposta la ricerca sulla mobilità in architettura e sugli edifici concepiti per cambiare configurazione.

Il MaXXI dovrà confrontarsi anche con l’opinione di chi, come Francesco Bonami, considera il museo romano, precedente la nomina di Stocchi, «sfortunato, complicato, raffazzonato, (…) senza una vera identità e una vera reputazione». «Quanto dice Bonami, replica Stocchi, si potrebbe allargare all’intero sistema dell’arte contemporanea in Italia, un Paese che considera il contemporaneo qualcosa esterno alla storia dell’arte, appunto senza identità. Il MaXXI corroborerà invece proprio la sua identità nazionale e internazionale, con il progetto MaXXI Med, che mira a collocarlo come centro artistico tra i maggiori del Mediterranee. Prossimo passo sarà la creazione del polo MaXXI Messina, con la cura di Chiara Ianeselli, che non sarà principalmente espositivo, ma di studio e residenza».
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Ma il MaXXI ha le potenzialità per competere con i grandi musei del mondo?
Competere? Collaborare. La percezione del MaXXI è influenzata dal contesto territoriale: nella città dei monumenti, si trova a competere con la Domus Aurea. Ma il suo contesto è anche il Mediterraneo, quindi porte aperte col Marocco, il Libano, l’Egitto. Non esiste più un centro del contemporaneo, ma molti e mobili. Come stabilire che cosa è centro e periferia?

Quando è stato curatore presso il Boijmans Van Beuningen Museum di Rotterdam, dal 2012 al 2023, aveva tuttavia più la sensazione di stare vicino a un centro attivo?

In Olanda si è diversamente attivi. Le individualità sono disciplinate in un sistema generale, che stabilisce tutto. In Italia i confini tra le singole individualità non sono così marcate, magari c’è meno chiarezza apparente, ma più gusto dell’avventura. In Italia sembra su fatichi di più, ma c’è più opportunità di uscire dall’ordinario, per raggiungere un extra-ordinario, che è più frutto dell’immedesimazione con ciò che fai, che del programma. Al MaXXI ho avuto la fortuna di trovare uno staff appassionato con professionalità eccellenti, guidato dal Presidente Alessandro Giuli che si è da subito mostrato in ascolto.

A proposito di avventura, la sua di curatore come è iniziata?
Non lo so, non l’ho mai deciso.

Lei è figlio di Gabriele Stocchi, figura poliedrica dell’arte, e dell’artista Luisa Gardini. Si conobbero a metà anni ’50 all’Accademia di Belle Arti di Roma…
Prima cosa devo dire che, mio padre, per quanto coltissimo, anzi forse proprio per questo, si definiva «dilettante (in tutto)». Ho respirato arte sin dall’infanzia, anche senza volerlo. Il mio è stato un processo naturale, ci sono cresciuto dentro, l’arte non è un mestiere, ma un modo di stare al mondo, anzi, di vederlo dal di dentro. Il vero privilegio è quello di non essersene neanche accorti. Si può diventare curatori così. Io peraltro vengo da studi di Antropologia. Mi sono laureato con una tesi sull’influenza dell’arte africana su quella occidentale, da Picasso, Brancusi, Modigliani, fino a Nunzio.

Perché fino a Nunzio?

Per arrivare un po’ alla mia esperienza personale, alla vita viva. Di Nunzio, io, in età di liceo, ero stato assistente in studio, aiutandolo a tagliare il legno, a bruciarlo, ad allestire le mostre, tutta una serie di attività che preferivo allo studiare…

Altre esperienze culturali?
Fu esperienza culturale il lavoro svolto presso l’edicola di piazza Colonna, turni di otto ore a vendere giornali. Ma il mestiere di curatore penso di averlo elaborato inconsciamente facendo il deejay. In questo lavoro devi comporre una storia nuova con materiale preesistente. È il lavoro del curatore.

Ai giornali ci è poi arrivato anche in altra veste. Da gennaio 2020 lei è curatore, sul quotidiano «Il Foglio», delle quattro pagine di inserto mensile dedicato all’arte, sempre molto ricco e per questo molto apprezzato: qual è il segreto per far sposare, oggi, alta cultura e buon giornalismo?
La cultura è alta? La verità è che il lavoro del curatore si espleta anche con la scrittura. Quello che mi ha interessato promuovere a «Il Foglio», è la traduzione delle problematiche dell’arte a un pubblico generalista. Per far questo ho coinvolto, nelle varie rubriche, artisti, curatori, architetti, o giornalisti sportivi geniali come Furio Zara, che parla di Cindy Sherman con la stessa disinvoltura con cui parla di Messi.

Questo vale però anche per lei, che si diletta, sempre sul «Foglio», a scrivere pure dell’amata squadra della Roma, citando Mahler e Agostino Di Bartolomei, in articoli colti e per nulla imparziali…
Non essendo giornalista sportivo, scrivo da tifoso. Ma anche questa avventura è nata da sé, naturalmente, come frutto di un processo organico, ma casuale. È inutile fare programmi nella vita, che tanto non si realizzano così come vorresti.

Che cosa hanno in comune l’arte e il calcio?
Forse il rapporto tra la dimensione individuale, intima, e quella della collettività. Pasolini diceva che «il calcio è l’ultima rappresentazione sacra».

Il mondo dell’arte, tra fiere, grandi mostre e nuovi musei, viaggia su regimi di alta fibrillazione e cifre stellari: rallentare sarebbe un peccato?
Sarebbe una virtù. Preferirei avere al museo, al posto di un milione di visitatori, un terzo, che però decide di rimanervi un giorno intero. Il valore di un museo dipende pure da quanto si sta in quel luogo. Il museo dovrebbe poter offrire una cultura lenta. Lo sapeva che la cultura slow, a iniziare dalla cucina, è nata a Roma? Peraltro, quando ero giovane, frequentando gli studi degli artisti, ricordo che c’era il tempo di parlare e soprattutto di ascoltare, e anche di annoiarsi, insomma perdersi un po’.

Guglielmo Gigliotti, 14 marzo 2024 | © Riproduzione riservata

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