Alessandra Mammì
Leggi i suoi articoliGabriele Di Matteo e Armando della Vittoria sono due artisti in una sola persona. Il primo, nato a Napoli da una famiglia di navigatori, era deciso fin da piccolo a seguirne la tradizione. Ma nel 1982, dopo aver studiato all’Istituto Navale e iniziato una promettente carriera marinara, fu «folgorato sulla via di Damasco» da una mostra grande e potente: la storica antologica di Jackson Pollock al Centre Pompidou. Lo colpì tanto da convincerlo di aver sbagliato mestiere e vocazione, quindi lasciò il mare, si iscrisse all’Accademia di Belle Arti e dopo il diploma partì per Milano per lavorare come impiegato negli uffici della Tirrenia e contemporaneamente lavorare come artista.
È lì che Armando della Vittoria nacque per caso, anche se l’animo dadaista di Gabriele Di Matteo direbbe che il caso non esiste. Fatto sta che nel 1988, volendo partecipare a un premio per artisti residenti in Italia indetto da Saatchi, spedì per posta insieme ad altri mille colleghi la sua domanda. Purtroppo l’ufficio postale fu funestato da un incendio e nell’incertezza che il suo curriculum fosse finito tra le fiamme, Di Matteo ne costruì un altro e lo battezzò Armando (nome del padre) della Vittoria (nome della madre). Il caso (di nuovo) volle che entrambi gli artisti furono selezionati e che la commissione non prese troppo bene l’operazione, sebbene Di Matteo cercasse di sottolinearne l’aspetto concettual-performativo.
Era comunque nato un nuovo artista, con una sua linea di ricerca parallela e complementare a quella del suo creatore. Di Matteo infatti è pittore. O meglio, fin dall’inizio abbraccia un singolare lavoro sulla pittura che affronta replicandola in copie, trasformandola in allestimento, potenziandola nei suoi elementi narrativi. Prende ad esempio le nature morte commerciali da osteria napoletana e ne riproduce particolari; ingaggia copisti di professione per trasportare su tela foto tratte dalla vita, dalla cronaca o dall’arte; usa il colore ma anche il bianco e nero, la ripetizione ma anche l’ingrandimento o la riduzione, ricrea l’immagine per estrarne quasi chirurgicamente i segreti del suo potere intellettuale e seduttivo. È un lavoro concettuale ma anche popolare. Analitico ma anche generoso e accattivante.
E mentre Di Matteo lavora individualmente nel suo atelier milanese, Armando della Vittoria è un uomo sociale che ama frequentare i colleghi e la vivacità di Napoli, ed è proprio lì, intrecciando pensieri e parole con Vedovamazzei, Franco Silvestro e Piero Gatto, che nel 1992 nasce l’idea di «E il topo». Molto più di una rivista, un «periodico d’artista», come recita il sottotitolo, un progetto comunitario che affonda le radici in Fluxus e porta la ricerca degli anni Novanta oltre i confini del secolo, testimoniandone un’energia e una potenzialità decisamente contemporanee.
Quei 33 numeri stampati su carta grigia riciclata e perlopiù in bianco e nero, tra il 1992 e il 1996 e poi dal 2012 al 2023 (quando Ben Vautier ne dichiara la fine in napoletano con la scritta «È fernuto»), hanno costruito un singolare esempio di editoria indipendente che ora grazie al sostegno dell’Italian Council e Viae industriae sono riuniti in un ponderoso cofanetto curato da Gabriele Di Matteo e Franco Silvestro. Doppio volume edito da a+mbookstore, che raccoglie in copia anastatica l’intera rivista con i suoi otto poster d’artista, più una selezione di testi di Anna Cuomo, Giorgio Verzotti, Françoise Lonardoni.
Ma la domanda è: esiste un filo rosso che lega Napoli e Milano, la pittura e la rivista, la solitudine dell’atelier e la collettività di una redazione, Gabriele Di Matteo e Armando della Vittoria? Ecco le risposte in una strana conversazione a tre, tra un cronista e un doppio artista.
Cominciamo a parlare di Gabriele Di Matteo, pittore colto in bilico fra l’immagine popolare e l’analisi concettuale. Quanto c’entra la sua origine napoletana in questo interesse verso un’arte illustrativa e commerciale?
Napoli mantiene un’antica tradizione di questa pittura. In gioventù scendevo al mare attraverso un vicolo dove viveva un artista che vendeva su strada le sue tele. Aveva sette, otto figli. Li manteneva così. Si chiamava Gambardella. Più tardi comprai un suo lavoro: una natura morta di fave, bellissima. Ma già allora avevo capito che la pittura commerciale non è pittura amatoriale. Richiede una profonda conoscenza del mestiere, perché per viverci è necessario fare più quadri possibili nel minor tempo possibile. C’è bisogno di pennelli speciali, di tecniche speciali. Bisogna conquistare un ritmo d’azione, mettere i quadri uno accanto all’altro per preparare su tutti lo stesso sfondo in contemporanea, coinvolgere intere famiglie dove ogni membro ha una sua specializzazione, solo così si può arrivare a produrre 20 o 30 opere al giorno. Questo tipo di pittore non dipinge nel senso romantico del termine, ma applica una tecnica di costruzione di immagine. Tanto che alcuni prendono il nome delle loro specializzazioni: Salvatore ’a mimosa pittore floreale, Antonio ’o canadese famoso per paesaggi nevosi...
Per questo li ha coinvolti nel produrre alcuni suoi lavori? Ad esempio la serie «Cina made in Italy» per Art Basel Unlimited, dove sono stati replicati in bianco e nero alcuni quadri dei più famosi artisti cinesi contemporanei, o il progetto su «Las Meninas» con copisti impegnati a suddividere e riprodurre il capolavoro di Velázquez in un puzzle di ben 256 frammenti?
Il punto di arrivo non è la ri-creazione di un’immagine ma l’analisi dell’immagine in tutte le sue stratificazioni concettuali e narrative. Cerco di costruire una contro-storia con molti livelli di lettura dove la componente installativa completa quella pittorica. Ma è importante sia l’aspetto intellettuale sia quello popolare. Il lavoro deve essere accessibile, non ermetico. Come affermava Duchamp, «l’opera è di chi la guarda». Io non devo spiegare al pubblico il processo, né pretendere che lo spettatore lo decifri.
Armando della Vittoria è d’accordo con lei?
Lui e io facciamo vite separate. Solo raramente è comparso in mostre. Il suo lavoro è tutto interno alla rivista. Anzi è lui stesso l’anima della rivista.
E allora parliamo di «E il topo»: «Roditore onnivoro, capace di adattarsi a ogni condizione di vita, furbissimo, intelligentissimo, insinuante, tenace, infingardo e supponente. Martire della sperimentazione e veterano della fuga. Animale socievole che vuole includere e coinvolgere», sono parole vostre...
È l’immagine del «topismo», lo spirito di una rivista che non era propriamente una rivista perché priva di ideologia, missione, dogma, linea editoriale, ma arriva dal bisogno di avere un luogo mentale dove operare collettivamente, un luogo per elaborare progetti, uno spazio non profit su carta. Nasce nel clima anarchico di Napoli, ma si sviluppa a Milano che nei primi anni Novanta stava diventando il centro di un nuovo modo di essere artisti, oltre l’Arte povera, oltre la Transavanguardia. Un modo empatico di incontrarsi, lavorare e vivere. Furono anni importanti: si cominciava a parlare di arte relazionale, anche se noi avevamo iniziato prima che uscissero i testi di Nicolas Bourriaud. All’inizio ci siamo autofinanziati e stampavamo clandestinamente in una tipografia di Afragola.
Uscivate così? Senza registrazione, senza direttore responsabile?
No, quello c’era! Era Armando della Vittoria! Dal numero 4 le cose cambiano. Arriva il critico ed editore, Piero Cavellini, che porta la tipografia a Brescia, solidifica e ristruttura l’impresa. Milano aveva messo ordine. Ma i nostri punti di riferimento restano gli spazi alternativi: via Farini, la galleria Facsimile o Neon di Bologna. Lì presentavamo la rivista e la cosa si trasformava in performance. Ma non c’era un legame diretto con i contenuti del numero. A ogni evento l’azione nasceva spontanea, non programmavamo niente. Tutto accadeva all’improvviso come in una jam session. Nel frattempo il gruppo si era allargato. Collaboravano artisti come Stefano Arienti, Grazia Toderi, Mark Dion, Amedeo Martegani, Emilio Fantin, Eva Marisaldi, Dominique Gonzalez-Foerster, Vanessa Beecroft, Maurizio Cattelan...
Praticamente una generazione. Poi nel ’96 la rivista chiude. Torna nel 2012 con un numero che si apre con un’epigrafe di Duchamp, «del resto sono sempre gli altri a morire», e presenta uno Spoon River con i volti di chi nel frattempo era scomparso: artisti come Arman o Louise Bourgeois, grandi curatori come Szeemann. Sembra un omaggio al Dadaismo nonostante il passaggio di secolo....
Dada e Fluxus restano i nostri punti di riferimento. Anche se siamo più vicini a Fluxus per l’aspetto internazionale, l’estrema libertà del gruppo, l’aggregazione spontanea, la mancanza di leader e l’idea di creare comunità. Le foto del memorial, ad esempio, quasi tutte inedite, arrivavano dagli album privati di amici, familiari e colleghi del mondo dell’arte. Fluxus poi è prevalente nella seconda fase, quando è più forte la presenza della performance, di musicisti come Steve Piccolo, Gak Sato e di figure multidisciplinari come Frédéric Liver, David Liver, Iain Baxter&. Poi monumentale è la partecipazione di Jimmie Durham, al quale avevo chiesto un disegno, ma che invece abbracciò l’intero progetto realizzando uno straordinario numero 24 e dichiarando la sua appartenenza al «topismo».
Eppure nonostante questa identità internazionale, l’acquisizione da parte del MoMA di tutti i numeri del primo periodo e della Bibliothèque Municipale di Lione dei manoscritti e opere originali degli anni Novanta, in Italia solo negli ultimi mesi, grazie all’Italian Council e alla mostra al museo Madre di Napoli, «E il topo» ha ricevuto una certa attenzione. Come lo spiega?
Forse per Milano eravamo troppo poco milanesi, per il resto del Paese non resta che dire: «Nemo propheta in patria». Certamente il grande archivio con il materiale digitale, grafico e fotografico, carteggi e pensieri dovrà trovare un collocamento. Lione l’ha già chiesto e se in Italia non trova un posto adeguato, «E il topo» si trasferirà in Francia.
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«Se si lavora con artisti viventi è necessario costruire un rapporto empatico, non solo valutare il progetto ma interpretarne i desideri, le ossessioni, i timori. Sono individui alla ricerca di sé e questo ha come prezzo l’incertezza», dice l’amministratore delegato e direttore di Palazzo Grassi-Punta della Dogana