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Louvre Abu Dhabi, Emirati Arabi Uniti, progetto: Jean Nouvel, 2017

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Louvre Abu Dhabi, Emirati Arabi Uniti, progetto: Jean Nouvel, 2017

Gaggero e Luccardini per trent’anni «amici dei mostri»

Dopo tutto il tempo dedicato ad analizzare stramberie, dalle villette agli edifici in cui gli architetti volevano lasciare «il segno», i nostri collaboratori festeggiano il terzo anniversario della loro storica rubrica commentando i «grandi musei» dell’ultimo decennio

Monofonia ad Abu Dhabi

Caro Gaggero,

ogni volta che vedo questo oggetto non riesco a togliermi dalla testa il suo coperchio... Non riesco a pensare alle opere d’arte che racchiude, ai suoi pur bellissimi spazi interni, così europei nelle finiture, nei colori, nell’ariosità dei locali. Niente. Entrando sotto alla cupola ti viene voglia di ammirarla più volte e capire come fa il sole a passare qua e là nel graticcio di ottagoni e triangoli. E come fa a stare su? E l’interrogativo ti ronza dentro, anche dopo averla fotografata: sintomo che permane quando entri, nonostante la meraviglia della luce. Nella sua semplicità formale, unita alla soluzione strutturale degli otto strati di acciaio e alluminio, c’è la formula del suo successo. Iconico come la Tour Eiffel è diventato un simbolo della capacità di imporsi che l’Emirato si è guadagnato non solo con i dollari, ma anche con la cultura. 
Luccardini

Caro Luccardini,

loro si descrivono così: «Una sinfonia di cemento, acqua e sottili giochi di luce riflessa, il suo design è stato ispirato dalle ricche tradizioni architettoniche della zona... Non è solo il primo museo universale del mondo arabo, ma anche un potente simbolo dell’ambizione...». Credo però che «sinfonia» sia un termine piuttosto europeo e con il cemento ha poco a che fare. Una sinfonia vuole diversi strumenti e diversi esecutori; il cemento ama essere generalmente uniforme si potrebbe dire è una «monofonia». Se poi osservo le meraviglie vere e magnifiche dei disegni islamici, per fare un solo esempio quelli di Granada, mi commuovo davanti all’arte e all’intelligenza di quelle simmetrie. Qui ci sono solo tanti quasi ottagoni grossi, intrecciati e troncati sul bordo. Alcuni hanno parlato di art-washing altri di soft power. Ma il Louvre di Parigi l’hanno fatto Museo per mostrare opere d’arte che già c’erano. 
Gaggero

Zeitz MOCAA, Sudafrica, progetto: Thomas Heatherwick, 2017

Lo zufolo di Città del Capo

Caro Gaggero,

a me piacciono i silos granari. Ricordo quando, prima che fosse demolito, sono riuscito a entrare e a salire in cima a quello del porto di Genova. Emozionante. Il riutilizzo a Città del Capo per farne un museo/spazio per l’arte contemporanea mostra chiaramente che è possibile usare un silos per farne un museo mentre non si può usare un museo per farne un deposito di granaglie. Dipende dal fatto che l’arte contemporanea si può infilare dappertutto e quindi un museo può avere una qualsiasi forma? In tal caso qualsiasi forma andrebbe sempre bene, anche la più assurda, come ormai capita quasi sempre. Scusa se ho usato il termine «bene» che nel mondo del qualsiasi non esiste. Un caro saluto o se preferisci un qualsiasi saluto. 
Luccardini

Caro Luccardini,

questo manufatto si trova, dicono, nella singola particella catastale che ha il più alto valore fra le real estate di tutta l’Africa. In altre parole siamo al centro del quartiere più lussuoso di Città del Capo e francamente il silos dava un po’ fastidio con la sua ingombrante e cilindrica presenza. Sicché, volendo rendere omaggio alla archeologia industriale, lo hanno ritagliato, come si farebbe con le canne per ricavarne uno zufolo. Però secondo me questi ritagli sono stati meno costosi di una demolizione totale a base di dinamite: intorno ci sono il porto turistico, i grandi hotel, le belle case di gente importante. Comunque non è stato possibile mettere il museo dentro ai tubi, perciò lo si è messo sopra, dove le vetrature sembrano gonfiate a cinque atmosfere. La grande hall ricavata per intaglio lascia capire quale sia stata la difficoltà per ottenere il grande spazio mantenendone la funzionalità strutturale. 
Gaggero

Museo Nazionale del Qatar, Qatar, progetto: Jean Nouvel, 2019

Alla ricerca del genius loci di Doha

Caro Gaggero,

l’idea di creare un museo a forma di rosa del deserto perché nel Qatar c’è il deserto e ci sono le rose del deserto è interessante ma non so fino a che punto replicabile. Sarebbe da vedere se si riesce a fare un museo a forma di canguro in Australia visto che in Australia ci sono i canguri. Ora qualcuno obietterà che la rosa del deserto è una conformazione minerale inorganica mentre il canguro è un organicissimo animale. Quel che conta però è l’idea base da sperimentare, ovviamente solo sul piano della fattibilità tecnica. Si prende un qualsiasi minerale o vegetale che si trova in zona e lo trasformo in museo. In tal modo risolvo il problema del genius loci, dell’identità, dei simboli, della storia, posso inebriarmi di cultura e ci infilo anche l’antropologia. Magari si dirà che il museo non c’entra niente con gli oggetti seppur geolocalizzati appena considerati. E vabbè se mai ci possiamo mettere un ospedale, magari un luogo di culto, una scuola, uno stadio... Adesso non sottilizziamo con i contenuti. Ci si mette quello che si vuole. L’importante che la forma sia tipica del luogo, i materiali siano costosi, i particolari ben curati, le superfici ben lucidate, e, naturalmente, bisogna attrarre i social... 
Luccardini

Caro Luccardini,

concordo con la tua geniale sintesi del genius loci. Intorno al Museo di Doha tutti i lampioni sono a forma di palmizio, e ovviamente sono fabbricati in lamiera. La vegetazione, quella vera, è tenuta in vita da una rete di tubicini: a ogni pianta la sua flebo. Da questi esperimenti terrestri discende la possibilità di colonizzare Marte e qui si chiude il cerchio. Perché sinceramente a me l’incastro dei dischi bianchi fra loro intersecati suggerisce come prima evocazione un colossale tamponamento di dischi volanti in un fortunoso atterraggio nel deserto. Solo dopo mi viene in mente la rosa (ne ho anch’io una in casa, comprata in Tunisia, che è difficile spolverare). Ripensando alla formula del genius loci, mi chiedo che forma lui darebbe, per attirare i turisti, al museo di Condom, graziosa cittadina dell’Occitania. 
Gaggero

The Grand Egyptian Museum, Egitto, progetto: Heneghan Peng Architects, 2025

The Great Egyptian Megastore a Giza

Caro Gaggero,

lo stanzone del grande museo è molto meglio della sabbia su cui è poggiato, eppure lascia spaesati anche quelli che frequentano i centri commerciali, di cui questo luogo è una megariproduzione. C’è dentro la più grande raccolta di oggetti egizi e basterebbe da sola a riempire più giornate di visite ai turisti che hanno già visto le Piramidi. L’ispirazione formale è molto basale: triangoli e rettangoli delimitano tutti gli spazi, semplificando i rimandi e l’ubicazione dei componenti, anche quelli di arredo. Giustamente la gigaforma si adatta ai luoghi e la strada per giungervi ha sette piste di marcia, benché si chiami Desert Road. La statua di Ramses II ha più di tremila anni e la sua dimensione fa pensare che se a quell’epoca ci fosse stato il turismo, anche lui avrebbe costruito un hangar invece della piramide. 
Luccardini

Caro Luccardini,

il mondo dei faraoni è una cultura millenaria che affascina per la sua intelligenza, ricchezza di credenze, religioni, vita, storia e capacità artistiche e tecniche. Ciò premesso, accanto alle piramidi questa struttura, non ancora terminata dopo vent’anni, mi sembra un grande emporio di oggetti che tutto è meno che portatore di simboli, senso e magia. Certo, per noi cinici razionalisti, sempre mortali come allora peraltro, non sembra molto ragionevole che per la tomba di un faraone si fossero sprecate tante risorse e tanti metri cubi di pietra. Non era solo questione di pietre e di tecnica ma anche di vite, di cultura e miti, e di ciò che li aveva fatti maturare. Insomma, una meraviglia di umanità intrecciata e stratificata in millenni in quel luogo e non altrove. Il megamuseo invece voleva essere grande, contenere più reperti possibile e ospitare più turisti possibili. Alla fine, il più «marketizzabile» possibile. Il megastore duty free di un grande aeroporto internazionale dove al posto di merci si vendono emozioni culturali. Nel museum shop, invece di quelle di Superman trovi le statuine di Ramses II, naturalmente in plastica. Le copie in pietra in grandezza originale sono poco commerciabili. 
Gaggero

M+, Cina, progetto: Herzog & de Meuron e Farrells, 2021

Persuasività pubblicitaria a Hong Kong

Caro Gaggero,

questo televisore sovrumano è perfettamente visibile e leggibile dall’altra sponda e rende ancora più vivace la «notte dei grattacieli». È tutto grandioso e il paesaggio urbano è totalmente artificiale, compreso il suolo su cui il museo è costruito. Ormai l’unico fattore naturale dell’ex colonia britannica è forse l’acqua del mare. Perfino la toponomastica stradale (Museum Drive) è piegata alle esigenze elementari del pubblico a cui si rivolge. L’impressione è che si voglia dare spettacolo, perciò anche gli interni destano sorpresa e curiosità come e forse più delle opere esposte. Come non restare stupefatti nel constatare che nel bel mezzo della hall c’è il tunnel multiplo della metropolitana che vanta un’angolazione diversa da tutto il resto? 
Luccardini

Caro Luccardini,

a volte penso che vi siano opere di architettura fatte per sottrazione dove alla fine non resta quasi nulla. Un inconfessabile senso di superiorità rispetto alle semplici dimensioni della realtà che porta disperatamente verso un nulla rivestito da dettagli sofisticati e da strabilianti trovate tecnologiche. Una specie di nichilismo architettonico condito da tanti, tantissimi soldi e proporzionata persuasività pubblicitaria. La megafacciata, di 110x66 metri rivestita da splendida ceramica toscana vive di notte grazie a 5.600 led integrati tra le piastrelle. Finalmente uno scopo chiaro: la grande facciata serve da display. «Alcuni visitatori hanno trovato l’ingresso e l’orientamento nel museo un po’ confuso», almeno secondo chi ha indagato i commenti degli utenti. Il che non guasta, se pensiamo alla banalità di sentirsi a proprio agio e alla mancanza di emozioni che suscitano la chiarezza e la sicurezza di essere padroni della situazione. 
Gaggero

The Broad, Los Angeles (Stati Uniti), progetto: Diller Scofidio + Renfro, 2015

Pelle e corpo a LA non si capiscono

Caro Gaggero,

ciò che colpisce è la perfezione dei particolari costruttivi, delle finiture e la qualità dei dettagli. Una strana spugna, fatta di una schiuma di celle regolarissime, tagliata da una lama affilatissima è l’involucro dell’edificio noto come il «velo». All’interno: come entrare in un altro mondo, una «volta» irregolarissima che richiama una grotta seppur con pareti in calcestruzzo lisciate alla perfezione è il corpo funzionale, il centro del museo. The Veil and The Vault. Due mondi giustapposti: una pelle e il corpo di un altro uniti dalla perfezione splendida e maniacale dei dettagli. La «new contemporary art» di cui il museo è la casa, dunque, consisterebbe nella perfezione dei particolari e nella opposizione/giustapposizione dei linguaggi e delle forme. Involucro e contenuto stanno insieme ma non si parlano. Meglio, parlano contemporaneamente, con molto garbo. Senza capirsi si ascoltano gentilmente, si compiacciono della loro educazione e correttezza ma ciascuno a modo suo. D’altra parte, i contenuti non contano quando si condivide che condividere non conta. 
Luccardini

Caro Luccardini,

in un museo così la prima mezz’ora serve per guardarlo dall’esterno e farsene una ragione. Ti chiedi se il candore materico reggerà al pulviscolo, ma è una domanda secondaria, visto che non c’è un tetto e dunque ogni volta che piove l’acqua del cielo lo lava buco per buco. Poi, quando entri, ti resta il ronzio dello scompenso formale ma le curve intestinali degli spazi ne fanno un luogo quasi simbiotico con le reazioni emotive. Peccato che i soffitti siano sempre a nido d’ape: celle, celle luminose più di quanto basta, ma anche incombenti e si sente il bisogno di un po’ d’aria. L’intero spazio è fatto di due colori: il grigio del pavimento e il bianco delle pareti. Di colpo viene dunque semplificata la percezione visiva del contenitore in modo che l’attenzione del visitatore è catturata dagli oggetti esposti, che non sono solo le opere d’arte, ma anche estratti materici del comune sentire. 
Gaggero

Museo d’Arte della Fondazione Rovati, Milano, progetto: Mario Cucinella, 2022

A Milano qual è il contesto?

Caro Gaggero,

Ho una predilezione per gli ipogei (ne ho già costruito uno per il mio domani) perciò apprezzo integralmente questo spazio che insieme è mitico ed eterno. Mi disturbano gli espositori metallici e vetrati, questo sì. Ma come puoi evitare che i visitatori vogliano «toccar con mano» ciò che già godono visivamente? Sono entusiasta dei 30mila conci di pietra con cui è stato realizzato questo igloo sotterraneo, ma mentre so come fanno gli esquimesi a farsi la cupola col ghiaccio, qui vorrei sapere tutto dei carpentieri che hanno fatto ogni lastra curvilinea diversa da quella precedente. Ed è perciò questo un potente motivo per entrare negli scantinati del bel palazzo milanese di corso Venezia. 
Luccardini

Caro Luccardini,

«La storia di un edificio è importante: le sue stratificazioni date dal tempo, le sue modifiche, le sue architetture riflettono la cultura e le vicissitudini delle famiglie che lo hanno abitato e il contesto». Tutto verissimo, ma che c’entra il sotto con il sopra? L’architettura ipogea, sotto il Palazzo, è ispirata dalla collezione etrusca ivi ospitata. Ma che c’entra con l’architettura ottocentesca dei piani superiori? Ciò detto però, è vero che il nuovo spazio ha fascino e crea «un’atmosfera mistica e sospesa». Ma di quale contesto si parla allora? Di quello dell’insieme o di quello specifico delle diverse parti? Questo è uno dei problemi importanti di oggi. La definizione di contesto, nel nostro caso quello dei piani superiori, quello dell’ipogeo o quello di tutto l’insieme? Qual è il contesto? «That is the question», direbbe Amleto. Ma se il contesto è solo quello ipogeo, e scendendo è distinto dal resto così com’è, a me non dispiace. 
Gaggero

New Museum, New York, progetto: Sejima+Nishizawa/Sanaa e Gensler, 2007

New York e il suo gioiello asimmetrico

Caro Gaggero,

qualcuno parlando dell’ampliamento del New Museum a New York ha detto: «Un gioiello assoluto, con la struttura composta da sette volumi rettangolari sfalsati e impilati in modo asimmetrico». A me piace l’idea di sette volumi sfalsati e impilati in modo asimmetrico, mi piacerebbe pure se i volumi fossero tre o undici, certo non è detto che sarei sempre d’accordo con l’entità delle sfalsature. L’importante è però che siano impilati in modo asimmetrico. È infatti ormai assodato che noi contemporanei con la simmetria non abbiamo più niente a che fare. Anzi ci irrita. È vero però che sugli sfalsamenti ci sono ancora diversi punti vista e io sono il primo ad avere i miei gusti; certo è, anche in questo caso, che il contemporaneo ha certezze. Lo sfalsamento si fa, ci vuole, anzi ci deve essere. Circa «un gioiello assoluto» il giudizio del contemporaneo segue il principio della dichiarazione affermativa. Se lo si desidera, si dice che si tratta di un gioiello assoluto e basta. La corrispondenza tra giudizio e realtà è del tutto irrilevante, il punto è che io posso affermare quello che voglio. La realtà faccia anche lei quello che vuole. Figuriamoci... 
Luccardini

Caro Luccardini,

si tratta di scatole poste a caso una sull’altra, giusto per sfruttare al massimo un rettangolino residuale. Non deve preoccupare la sua forma, giacché è il suo contenuto che può sfuggire di mano: diventare arte vera oppure perdersi nell’estro del suo artefice. Per chi vuole entrarci la domanda è spontanea: «Vediamo che cosa contiene», ciò che di solito si pensa davanti a una scatola regalo. Ciò che è in mostra al suo interno è l’ultima espressione vista in tutti i versanti dell’arte visiva. Coerentemente con questa offerta il suo contenitore (la scatola) non esprime alcuna tendenza, né stile, né decorazione. Poteva, al limite, essere un solo prisma invece di esserne sette uno sull’altro. Ma questa singolarità lo avrebbe piazzato fra gli esseri normali, e lui non lo è. 
Gaggero

Museo Munch, Oslo (Norvegia), progetto: Herreros Arquitectos, 2021

Facce inorridite sul lungomare di Oslo

Caro Gaggero,

francamente mi sembra eccessivo sia come dimensione sia come aspetto questo ingombrante contenitore dei 28mila (sic) cimeli di Edvard Munch che dice di custodire. Conoscevo di questo artista solo 29 opere, tutte inquietanti. Ora però nell’edificio rivestito di alluminio traforato (forse un accorgimento antifurto) ci sono due ristoranti, un bar e un enorme shop dove si vendono oggetti decorati con facce inorridite. Di queste funzioni, non delle opere, trattano i video promozionali. Ti dirò: l’esterno gareggia con la vicina Operahuset. Del resto nel lungomare della capitale norvegese c’è un compendio di bizzarrie architettoniche: esattamente il contrario dell’ossessiva casupola in legno dipinta di rosso che vedi ripetuta mille volte lungo i fiordi. 
Luccardini

Caro Luccardini,

quello che mi intriga di più è il paesaggio pseudobombardato sullo sfondo. Ma lasciamo perdere, l’edificio mi pare perfettamente contestualizzato visto che tutto quanto si intravede all’intorno sembra disarticolato, eterogeneo e del tutto ripiegato su sé stesso. Lasciamo pure perdere facili ironie su Munch, a cui il museo è dedicato, e al famoso grido di sgomento del famosissimo quadro «L’urlo». Ovvero l’espressione di Munch se avesse potuto vedere il proprio museo. Concentriamoci sull’edificio. Certo che, se non contrasta con l’immediato intorno edilizio, di sicuro l’altezza elevata contrasta con il fiordo, il paesaggio e l’insieme. Tuttavia, non concordo con chi ha obiettato che «non riflette lo spirito drammatico e introspettivo delle opere di Munch, privilegiando un’estetica contemporanea fredda e impersonale». Credo che in quanto a dramma si sia centrato l’obiettivo, addirittura creandolo; circa l’estetica contemporanea fredda e impersonale, anche in questo caso credo che, con una facciata alta 60 metri in alluminio perforato senza finestre, si sia raggiunto quasi il massimo. 
Gaggero

Art Gallery of New South Wales-Sydney Modern, Australia, progetto: Sanaa, 2022

A Sydney vitree elucubrazioni tropicali

Caro Gaggero,

nella congerie di vetrate che fa da sfondo a questo complesso, non stupisce affatto che esso sia un pretesto per una vitrea elucubrazione. Poco distante dalla sede ottocentesca coi nomi degli artisti sul fregio (tra cui Cellini, Canova e Michael Angelo) e anche vicina alla cattedrale neogotica, questa ammucchiata di prismi rende subito l’idea al visitatore che lui non capirà mai l’architettura contemporanea, ma che gli fa sicuramente impressione. Fra i pregi da tenere in debito conto c’è l’illuminazione naturale degli spazi interni che però non è sempre un bene per le tele dipinte. Visto il clima della città (subtropicale umido) mi chiedo se bastino i pannelli solari del tetto più largo a coprire le spese dell’aria condizionata. 
Luccardini

Caro Luccardini,

in una delle descrizioni dell’ampliamento della Art Gallery di Sydney si legge: «È progettato per creare un contrasto con l’architettura neoclassica del XIX secolo della galleria d’arte esistente». Contrasto, innovazione, forme leggere e fluide, evitare le gerarchie, rapporto armonioso con l’ambiente e sostenibilità green. Queste sembrano essere le parole chiave raccolte nelle dichiarazioni dei progettisti, dalle motivazioni del Pritzker Prize, da quelle del Praemium Imperiale di Tokyo e da alcune riviste. Nel bene e nel male c’è il vuoto sul manufatto. La composizione, la struttura relazionale tra le parti dove sono finite? Esiste una struttura armonica, esistono «accordi» tonali o meno? C’è un angolo cieco, accuratamente evitato che riguarda «la musica, la melodia» dell’edificio. La sensibilità dei progettisti per fortuna non può essere nascosta ma alla fine i pezzettini sembrano casualmente accatastati. 
Gaggero

Gaggero & Luccardini, 28 maggio 2025 | © Riproduzione riservata

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