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Sarvy Geranpayeh
Leggi i suoi articoliMentre il blocco di Gaza da parte di Israele ha superato il terzo mese, le Nazioni Unite e i loro membri hanno lanciato l’allarme per l’aggravarsi della catastrofe umanitaria. La dichiarazione, rilasciata il 4 maggio, è arrivata mentre il gabinetto di sicurezza israeliano approvava l’espansione dell’offensiva militare, tuttora in corso, con un pesantissimo bilancio di vittime e distruzioni, insieme a piani per rafforzare il controllo sui soccorsi dopo la visita del presidente degli Stati Uniti Donald Trump nei Paesi arabi del Golfo. Nella dichiarazione, l’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari (Ocha) ha respinto il piano di distribuzione degli aiuti proposto da Israele, che secondo l’Onu convoglierebbe gli aiuti umanitari attraverso centri controllati dall’esercito, invece di consentire alle agenzie delle Nazioni Unite e alle Ong di operare in modo indipendente. «È pericoloso spingere i civili in zone militarizzate per raccogliere razioni, mettendo a rischio la vita delle persone, compresi gli operatori umanitari», avverte la dichiarazione, aggiungendo che ciò aggraverebbe anche gli sfollamenti forzati in tutta la Striscia.
Vivere nell’umiliazione
Tra i circa due milioni di persone colpite dal blocco in vigore dal 2 marzo ci sono artisti e personalità della cultura di Gaza.
«Tutti a Gaza avevano speranza nella vita, ma purtroppo ora desideriamo la morte, ci ha confidato Hamoudeh Al-Duhdar, esperto di patrimonio palestinese a Gaza. Stiamo vivendo ogni forma di umiliazione, disonore, paura e fame», ha aggiunto. La figlia undicenne di Al-Duhdar, Mervat, è rimasta uccisa a dicembre 2023 in un attacco aereo israeliano. Il 7 maggio, che sarebbe stato il compleanno di Mervat, cinque giovani cugini di Al-Duhdar, tra cui un ragazzo di 15 anni, sono stati uccisi in un attacco aereo israeliano, e molti altri sono rimasti feriti: «Abbiamo dato l’ultimo saluto a un giovane dopo l’altro», ha raccontato. Prima che Israele rompesse il cessate il fuoco di due mesi il 18 marzo e riprendesse l’offensiva militare, Al-Duhdar aveva guidato i lavori di soccorso e conservazione di alcuni dei siti storici più colpiti di Gaza, tra cui il duecentesco sito e museo archeologico dell’era mamelucca, Qasr Al-Basha (Palazzo Al Pasha). La ripresa della guerra ha interrotto questi progetti e, con essi, il suo lavoro e il suo reddito. Intanto i prezzi dei beni salgono alle stelle. Lui e la sua famiglia, confida Al-Duhdar, sopravvivono grazie alle scorte di cibo accumulate in precedenza, come conserve, riso e grano «cattivo», che lui stesso descrive come «non adatto al consumo».
Violazioni della Carta Onu?
Il rifiuto da parte dell’Onu della proposta israeliana ha fatto seguito alle recenti udienze presso la Corte internazionale di giustizia (Icj) dell’Aia. Durante queste udienze, 45 Paesi e organizzazioni internazionali hanno sostenuto che il divieto di Israele di fornire aiuti umanitari ai palestinesi, così come il divieto di cooperare con l’Unrwa, l’agenzia delle Nazioni Unite per i diritti dei palestinesi, costituisce una violazione della Carta delle Nazioni Unite, di cui lo stesso Israele è firmatario. Il parere della Corte richiederà mesi e, sebbene non sia vincolante, fornirà chiarezza sulle questioni giuridiche.
«Quello che sta succedendo a Gaza non è solo una crisi umanitaria, è una distruzione organizzata della memoria, dell’identità e del tessuto sociale», afferma Sheerin Abdel Karim Hassanein, ventottenne artista multidisciplinare il cui lavoro spazia dalla pittura alla scultura, dall’installazione alla videoarte e alla modellazione architettonica 3D. Per Hassanien la situazione alimentare a Gaza è «tragica», sottolineando che la sua famiglia sopravvive principalmente grazie agli aiuti umanitari, a suo avviso insufficienti. «I pasti sono diventati essenziali all’estremo: di solito solo pane e qualche cibo in scatola, o riso e zucchero se disponibili. L’acqua potabile è quasi inesistente e a volte siamo costretti a bere acqua non sicura, spiega. Per procurarsi il cibo bisogna stare in fila per ore e a volte torniamo a mani vuote».
Sfollata ancora una volta a seguito della ripresa della guerra, Hassanein racconta che la vita in queste condizioni è particolarmente dura per le donne. La pressione psicologica portata dal doversi prendere cura dei bambini e della famiglia in ambienti insicuri e insalubri è immensa, mentre la mancanza di aiuti ha reso quasi impossibile l’accesso all’igiene di base e ai prodotti per l’igiene personale. «Molte donne hanno perso la loro casa, la loro privacy e persino la loro sicurezza fisica e psicologica, spiega. Ho visto madri crollare nei centri di accoglienza perché non sono in grado di proteggere i propri figli o persino di fornire loro pannolini o latte». Nonostante le difficoltà, Hassanein continua a creare arte, documentando il momento come forma di resistenza e ritagliandosi uno spazio personale in mezzo al caos. «Il mio messaggio a chiunque mi ascolti è: non lasciate che la nostra storia sia ridotta a numeri, implora. Siamo esseri umani che sognano, amano e creano, nonostante tutto».
La fame dell’anima
Il 25 aprile il Programma alimentare mondiale delle Nazioni Unite (Wfp) ha annunciato di aver esaurito tutte le scorte di cibo caldo a Gaza, sottolineando che rispetto al periodo del cessate il fuoco i prezzi dei generi alimentari erano saliti fino al 1.400%. L’organizzazione aveva già chiuso entro il 31 marzo tutti i suoi 25 panifici a causa della carenza di grano, farina e combustibile per cucinare.
Mustafa Mohanna, un artista visivo di 33 anni di Gaza City, ha lavorato con i bambini durante la guerra per aiutarli a esprimere le loro emozioni e alleviare le loro paure attraverso progetti come la pittura direttamente sulle macerie, in alternativa alla carta, limitata e costosa. Tutto è scarso e costoso, riferisce, sottolineando che un sacco di farina da 25 chili ora costa fino a 500 dollari, rispetto ai 15 di prima. La carta, invece, sempre che riesca a trovarla, costa 33 dollari (prima ne costava 4). «La vita è davvero catastrofica, ci dice. Non è solo il cibo che ci manca. Ciò che ci manca è la vita». Mohanna continua: «Sì, abbiamo fame, ma non è il cibo che manca a me, come artista. Mi mancano i miei strumenti di lavoro. Mi manca l’atmosfera che c’era prima della guerra. Mi manca il mio studio, pieno di ispirazione e di luce che entrava dalle finestre. Mi manca il nutrimento dell’anima». È arrivato a considerare fortunati coloro che sono morti all’inizio della guerra.
Salute, istruzione e una vita dignitosa
Secondo l’Ocha il blocco ha avuto un impatto negativo anche sull’assistenza medica, compresa la disponibilità di medicinali essenziali, una realtà difficile che Suhaila Shaheen ha conosciuto quando ha avuto bisogno di un intervento chirurgico. La 63enne fondatrice del Museo Al Rafah, ora distrutto, si è rotta un piede durante il cessate il fuoco, quando è stata colpita da un sasso caduto dalle rovine della sua casa a Rafah. La nuova vita, iniziata nella tenda che aveva montato sulle macerie, non è durata a lungo. I bombardamenti sono ripresi e l’esercito israeliano ha ordinato di lasciare la zona.
Mentre cercava di fuggire con il piede rotto, Shaheen è caduta e si è fratturata l’anca. Con gli ospedali sovraffollati dalle vittime dei bombardamenti, ha dovuto aspettare una settimana per essere operata. Tuttavia, la placca metallica di cui aveva bisogno non era disponibile nella sua misura. Le è stata invece applicata una placca troppo grande, che le causa grande disagio. Dopo l’operazione, è stata lasciata senza antidolorifici né antibiotici: «A Gaza scarseggiano, spiega. Non riesco a dormire né di notte né di giorno, il dolore è continuo. Non ci sono integratori, né alimenti sani, né vitamine nelle farmacie: non c’è nulla. La situazione sta diventando sempre più difficile. A Gaza non sono garantiti i diritti umani più elementari: cibo, salute, istruzione e una vita dignitosa».
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