«Gap» (2020) di Giulia Parlato (particolare)

Image

«Gap» (2020) di Giulia Parlato (particolare)

Giulia Parlato, Francis Frith e la complessità della memoria storica

L’artista palermitana oppone agli scatti dei monumenti egiziani realizzati del fotografo ottocentesco le proprie immagini di musei vuoti e di reperti archeologici falsi o mai esistiti, mettendo in discussione la neutralità della fotografia nell’interpretazione della realtà

La fotografia è davvero neutrale e oggettiva? In che modo la nostra conoscenza e interpretazione della storia è influenzata dalla sua narrazione visiva? «Diachronicles», il progetto della fotografa palermitana Giulia Parlato, si propone di cercare una risposta a queste domande. Nella mostra «Pathosformel, archeologia del possibile» (dall’11 maggio al 29 giugno), presentata alla galleria bergamasca Cartacea, Parlato crea un dialogo e una relazione con le immagini del fotografo ottocentesco Francis Frith (1822-98) per riflettere sull’impatto della fotografia sulla storia e l’archeologia.

Considerato un pioniere della fotografia, grazie in particolare all’adozione di tecniche come il collodio umido su negativi di vetro e il processo di stampa all’albumina, Frith divenne famoso per le sue fotografie di monumenti egiziani, le quali non solo all’epoca permisero al mondo di scoprire la cultura e la storia del Paese, ma continuano ancora oggi a influenzare lo studio dell’archeologia.

Alle fotografie di Frith, che appaiono a tutti gli effetti una prova oggettiva di una realtà storica, Parlato oppone immagini di musei vuoti, di reperti archeologici falsi o mai esistiti. I suoi scatti in bianco e nero sono volutamente ambigui, di difficile comprensione e collocazione. L’artista offre così una riflessione sulla complessità della memoria storica e l’impossibilità di un’immagine di comunicare una verità oggettiva. «Le fotografie di Parlato documentano il confine tra qualcosa che è veramente accaduto e qualcos’altro che appartiene alla fiction e al fake, tra vero attendibile e simulazione», scrive il critico d’arte Mauro Zanchi a proposito della mostra.

La ricerca di Parlato è fortemente influenzata dal lavoro di Aby Warburg (1866-1929), il quale ridefinì i confini della storia dell’arte e diede vita al concetto del «Pathosformel», che illustra le connessioni simboliche e storiche tra immagini di epoche diverse. La fotografa si spinge però ancora oltre, sfidando l’idea che una visione oggettiva della storia possa esistere e affermando invece l’esistenza di molteplici interpretazioni e manipolazioni della realtà.

Figlia della propria epoca, Parlato risponde a una questiona primaria della nostra società, in cui la relazione con l’immagine gioca un ruolo essenziale. Le evoluzioni tecnologiche e comunicative degli ultimi anni, la facilità di scattare e condividere fotografie e, più recentemente, la propagazione di immagini create con l’intelligenza artificiale rendono infatti essenziale la comprensione dei limiti e delle criticità del medium fotografico e della narrazione visiva. «Diachronichles» offre così un contributo al dibattito, ricordando al pubblico la fragilità della propria conoscenza.

«Evidence n. 5 (The Zig Zag Illusion)» (2022) di Giulia Parlato

Anna Aglietta, 09 maggio 2024 | © Riproduzione riservata

Altri articoli dell'autore

Dall’11 luglio al 3 novembre, la città toscana diventa un museo a cielo aperto con 22 mostre in sette località

Nella sede torinese oltre 250 fotografie dell’autore campano che crea rappresentazioni archetipe della realtà collettive

150 immagini di una delle grandi pioniere del fotogiornalismo del ’900 in mostra a Torino

Nel MuFoCo la fotografa toscana immagina una relazione senza limiti di tempo con la madre Loriana

Giulia Parlato, Francis Frith e la complessità della memoria storica | Anna Aglietta

Giulia Parlato, Francis Frith e la complessità della memoria storica | Anna Aglietta