Otto anni dopo la rassegna che nel 2017 presentava in Triennale Milano (prima tappa di un itinerario internazionale) la raccolta di Giuseppe Iannaccone di artisti italiani «dissidenti» del ’900, dal 7 marzo al 4 maggio Palazzo Reale si apre alla nuova mostra «Da Cindy Sherman a Francesco Vezzoli. 80 Artisti Contemporanei. Opere dalla Collezione Iannaccone» (catalogo Allemandi), curata da Daniele Fenaroli con il supporto scientifico di Vincenzo De Bellis, che per la prima volta espone 150 lavori di 80 artisti internazionali del nostro tempo scelti nella vasta sezione della raccolta che Giuseppe Iannaccone va formando dalla fine degli anni Novanta, a una decina d’anni dal suo esordio da collezionista.
Avvocato di gran fama, fondatore e presidente dello Studio milanese che porta il suo nome e collezionista appassionato, Giuseppe Iannaccone racconta a «Il Giornale dell’Arte» questa nuova tappa del suo percorso.
Avvocato Iannaccone, dopo gli artisti espressionisti italiani del ’900, presentati otto anni fa in Triennale, ora lei condivide a Palazzo Reale la raccolta di arte contemporanea, che allora non volle ancora mostrare: quando ha capito che era arrivato il tempo di esporla?
Ci sto pensando ormai da tempo ma poiché ho molto rispetto per le persone, ho voluto attendere che il progetto acquisisse un senso compiuto anche per il pubblico, altrimenti sarebbe stato puro esibizionismo. Oggi questa parte della collezione ha raggiunto un suo equilibrio e rappresenta esattamente ciò che cerco nell’arte a livello internazionale, nei principali Paesi del mondo. E sono molto orgoglioso di poterla presentare in anteprima internazionale a Milano, entrando per di più dalla sua porta principale, Palazzo Reale.
Lei cita spesso Milano e con evidente affetto.
Napoli è la mia città e io le sono molto legato, ma Milano è la mia «mamma adottiva». Sono arrivato adolescente, nel 1970: allora, è vero, il clima era diverso per chi veniva dal Sud. All’inizio mi sentivo un po’ a disagio ma un minuto dopo Milano mi ha fatto capire che si aspettava molto da me. E così è stato: Milano mi ha permesso tutto e oggi mi commuove che questa città meravigliosa, nei miei 70 anni, abbia voluto tributarmi l’onore, deliberato dalla Giunta, di una mostra a Palazzo Reale.
A suo parere, c’è un modello-Milano nel collezionismo? E quanto ha contato, per la sua collezione, il fatto che lei viva e lavori in questa città?
Milano ha avuto collezionisti straordinari e il sistema delle sue gallerie è stato essenziale per me. Penso a Gió Marconi, a Massimo De Carlo, a Raffaella Cortese e Tommaso Corvi Mora, ma soprattutto a Claudio Guenzani, cui sarò sempre grato perché mi ha dato sempre e solo opere di altissima qualità.

Paola Pivi, «Senza titolo (Asino»), 2003. Foto © Studio Vandrasch. Cortesia della Collezione Giuseppe Iannaccone

Marinella Senatore, «The school of narrative dance: little chaos #2», 2013. Foto © Studio Vandrasch. Cortesia della Collezione Giuseppe Iannaccone
La mostra presenta 150 opere di 80 artisti, ma la sua raccolta di arte contemporanea è molto più ampia: con quale criterio sono state selezionate?
Le «regole d’ingaggio», per così dire, con Vincenzo De Bellis sono state chiare da subito e sono state rispettate da entrambi: a lui sarebbe spettata la prima scelta e solo in seguito io avrei potuto fare proposte ulteriori, con il supporto di Daniele Fenaroli, il curatore della collezione. Certo, è stata una selezione per me dolorosa, perché non tutte quelle che avrebbero meritato di essere esposte sono presenti. Tuttavia, posso dire che la mostra rappresenti al meglio la mia ricerca.
Nella sua raccolta c’è un’alta percentuale di donne, di artiste e artisti neri, di persone omosessuali: scelte da lei compiute anche in anni relativamente lontani, quando il tema non era ancora così bruciante. Come lei ci aveva anticipato in un’intervista del 2023, «non era stata una scelta razionale. Forse dipendeva dal fatto che queste persone, nella storia dell’arte, hanno sempre taciuto e quando si sono sentite libere di parlare, avevano tanto da dire. Oggi è diventata una moda e io sono disorientato». Conferma questo disorientamento?
Sì: ho acquistato sin dall’inizio opere di questi artisti, ma non è stata una scelta preconcetta. Credo che tutti loro abbiano una sensibilità accentuata e gli artisti neri, quando iniziavo, hanno detto cose nuovissime. Oggi, al di là di Tyler Mitchell, vedo tante ripetizioni. Infatti, i lavori che ho in collezione appartengono ai primi anni. Ovviamente ci sono lodevoli eccezioni, ma io ho visto allora Kehinde Wiley mettere al centro i neri trascurati dalla storia dell’arte e oggi, vent’anni dopo, questo tema non mi interessa più: cerco un nuovo sguardo. Perché mi interessino davvero, le opere d’arte devono darmi un’emozione nuova (io dico «un abbraccio») a ogni acquisto. Ed è quello che oggi mi accade con i giovanissimi Jem Perucchini e con Ifeyinwa Joy Chiamonwu, un’artista che racconta le tradizioni delle etnie nigeriane presto cancellate dalla globalizzazione. Una testimonianza per il futuro.
La mostra si apre con la sala monografica di Cindy Sherman; poi, a metà percorso, c’è un affondo su Kiki Smith: perché proprio loro?
Perché sono centrali nella storia dell’arte contemporanea; credo che Kiki sia l’artista di cui ho più opere: mi meraviglia sempre la sua narrazione del rapporto della donna con gli animali. Ma nella sua sala ho voluto introdurre anche la giovane Giulia Cenci, che indaga questo stesso rapporto ma in una chiave nuova e diversa. A mio parere Giulia è una delle figure più importanti della sua generazione. Così come Iva Lulashi: lei ha fatto con me la sua primissima mostra e vedere che alla Biennale ha avuto un intero padiglione mi ha molto commosso.
Le ultime due sale affrontano tematiche apparentemente lontane: le problematiche sociali la prima, l’introspezione e lo stato sospeso del sonno la seconda. Società e intimità: un suo ritratto interiore?
Sì, la mia è una ricerca continua di umanità, che non può che ripercuotersi in una ricerca sociale. Sento molto su di me le questioni sociali ma amo che vengano trattate con delicatezza. Quanto all’introspezione, è il cuore della mia collezione, perché l’arte è quella cosa meravigliosa che ti consente di affrontare, e curare, le tue fragilità.

Francesco Vezzoli, «La Signora Bruschino», 2006. Foto © Studio Vandrasch. Cortesia di Collezione Giuseppe Iannaccone. © Francesco Vezzoli, by Siae 2025

Cindy Sherman, «Untitled Film Still #2», 1977. Foto © Studio Vandrasch. Cortesia della Collezione Giuseppe Iannaccone