Verifica le date inserite: la data di inizio deve precedere quella di fine
Giorgia Aprosio
Leggi i suoi articoliGuglielmo Castelli (Torino, 1987) dipinge mondi in bilico, popolati da figure che appaiono e scompaiono, scivolano sinuose tra il visibile e l’invisibile, tra il dentro e il fuori del quadro, tra il dietro e il davanti di una pennellata, giocando con le quinte della nostra percezione. Immersi in scenografie sfuggenti, sembrano attraversare stati d’animo più che spazi, soglie emotive più che ambienti. Con una pittura liquida, vibrante e imprevedibile, scandita da stratificazioni morbide che si alternano a improvvisi addensamenti, Castelli racconta una realtà incerta, abitata da corpi in fuga, identità sfumate, tensioni e gesti sospesi. Negli anni, il suo lavoro è stato protagonista di personali presso la Fondazione Bevilacqua La Masa di Venezia (2024), Villa Medici a Roma (2024), Aspen Art Museum in Colorado (2023), Mendes Wood DM a New York (2023) e Bruxelles (2021), Rodeo a Londra (2022), The Cabin a Los Angeles (2020), Fondazione Coppola a Vicenza (2019) e Künstlerhaus Bethanien a Berlino (2018); ed è stato anche incluso in mostre istituzionali, tra cui «Pittura Italiana Oggi» alla Triennale di Milano (2023), «Diario Notturno» al MaXXI L’Aquila (2023), «Expressioni» al Castello di Rivoli (2022), «17ma Quadriennale» di Roma (2020), «Challenging Beauty» al Parkview Museum di Singapore (2018) e «Recto/Verso 2» alla Fondation Louis Vuitton di Parigi (2018). La sua prima mostra personale in Brasile, intitolata «Um galo sozinho não tece uma manhã (Un gallo da solo non fa una mattina)», è in corso fino al 16 agosto presso la galleria Mendes Wood DM, nella sede di Barra Funda a San Paolo.
Perché dipinge?
Simulo la fine, architetto l’inizio. Mi muovo per tentativi compositivi, ed è proprio lungo questo percorso di inciampi e decori che scene e personaggi compaiono nei miei dipinti. Dipingere è un po’ come fare matematica: un limbo fra invenzione e assemblaggio, una deliziosa irresponsabilità. Spesso sono storie di solitudini: agglomerati, liquefazioni costrette in spazi troppo angusti per contenere quei corpi anatomicamente sbagliati, fuori tempo, fuori fuoco. Nel sentirsi adatti, in quegli spazi di competenza di cui tento di dettare limiti e ostacoli pittorici, sta la vera sfida della pittura. Cito spesso questo passaggio della scrittrice Veronica Raimo, che mi risuona sempre adatto, sempre presente: «Ogni volta che mi sono sentita chiusa in una cameretta, dentro un gioco con delle regole, non ho provato a fuggire ma ad inquinare il raziocinio della stanza e delle regole. A immaginare cose finte, a dirle, a provocarle, fino a crederci. Fino a pensare che un dado può sempre dare cinque, benché non serva assolutamente a nulla».
Ha dichiarato spesso di considerarsi prima di tutto un pittore, ma è partito da una formazione in scenografia. Come si è evoluto nel tempo il suo rapporto con il mezzo pittorico?
«Trovarobe», penso sia questa la definizione che più mi si avvicina. Raccogliere e ridistribuire sulla superficie pittorica è stato un ricalcolo di percorso. La pittura non l’ho mai studiata, l’ho venerata per tanto tempo; ho cercato di stilarne dei codici che potessero aiutare quelle intenzioni, quelle figure che volevo far danzare, che volevo raccontare. Oggetti casuali, intenzioni sparpagliate: così costruisco la scena. Inserisco oggetti che sono feticci, che sono desiderabili o detestabili, che hanno l’ambivalenza del dubbio, del non essere sicurezza per un tempo specifico. Forse esistono solo nel ricordo, perché il futuro non esiste. Se non si dà un nome alle cose, le si esclude. E allora io declino liste e campionari di desueti arnesi e corpi. In questo, la pittura mi è allo stesso tempo compagna e avversaria. È una condizione perenne, che deve sempre essere mantenuta: mai domata, sempre temuta. Tentare di indovinare, nel buio della notte…
Mentre parla, lo fa per immagini, i suoi dipinti sono da leggere con gli occhi, più che semplicemente da guardare. Da dove nasce questa dimensione narrativa?
Che cosa accade dello spazio che fino a poco prima ci competeva? Cosa lasciamo di noi negli altri, quando ce ne andiamo? E di chi è lo spazio della pittura non dipinto, quello intorno, quello non scelto dall’inquadratura pittorica? Sono tutte domande che riaffiorano durante il processo pittorico, quando l’errore diventa un ospite prezioso. Il limite, il confine, non è altro che ciò che resta di quello che ci capita: siamo ciò che sbagliamo, e che ricalibriamo nello spazio che ci è concesso. Il movente elusivo è ciò che l’occhio tenta di captare nei vari livelli dell’immagine, quelli che, nei termini tecnici, cerco di strutturare in ogni lavoro. La letteratura è da sempre un altro valore costituente della mia pratica: costante, ripetitiva, nomenclativa. Ho avuto un’educazione molto rigida, la narrativa mi ha concesso spasmi creativi: sognare più forte leggendo le vite degli altri, di altre solitudini. Siamo quotidianamente immersi in schermi che richiedono una costante verticalizzazione dell’immagine: il dito scorre, scorre, scorre... La pittura, invece, è orizzontale. Ha un suo tempo muscolare di visualizzazione.
I personaggi che popolano le sue tele sembrano spesso fluttuare, quasi dissolversi per poi riapparire, mossi dal continuo flusso delle pennellate. Soli, immersi in paesaggi densi e liquidi che li avvolgono, protagonisti di fiabe disturbanti. Sembra esserci qualcosa di esistenzialista nella sua pittura. Quale ruolo ha la solitudine nella sua pratica?
Dipingo per sentirmi adatto, in una solitudine scelta. Ringrazio la quotidiana solitudine perché postura di quello che può crescere lontano da molto, non da tutto. Elegante compagna di viaggio per le mie beneducate frivolezze.
L’utilizzo di campiture fluide, del colore che cola e si stratifica sulla tela, dà vita a immagini che sembrano affiorare spontaneamente, portandoci a riconoscere forme note in immagini casuali. Eppure nei suoi lavori non c’è nulla di propriamente surreale: sono sogni, sì, ma sogni che in qualche modo parlano del nostro mondo.
Odio la parola «onirico», come non sopporto le fate. Ho sempre preferito tentare di addomesticare i mostri sotto il letto, in quel buio notturno, aurorale dove poter immaginare tutto. Mi sono cari i temi dell’accettare la possibilità dell’indefinito, del dubbio, dell’errore, della possibilità del singolo, dell’autodeterminazione, del poco che può essere molto. Mi interessa far trasparire come essere pittore voglia anche dire essere fine artigiano, qualcosa che si collega alla tradizione del creare con il tempo. Leon Battista Alberti nel suo De Pictura cercava di dimostrare come la pittura fosse una forma di teoria, una riflessione sulla realtà. Penso sia così anche oggi.
Riprendo la sua citazione di Alberti, perché proprio a lui si deve questa idea così potente della pittura come atto di presenza, come traccia vivente nel tempo: «Tiene in sé la pittura forza divina non solo quanto si dice dell’amicizia, quale fa gli uomini assenti essere presenti, ma più i morti, dopo molti secoli, essere quasi vivi». Quali temi concreti sente attraversare oggi la tua pittura? E come, nel suo caso, entrano nella tela la politica, la società, l’attualità, il nostro tempo?
Dipingo corpi in spazi. Come diceva la scrittrice Michela Murgia: il corpo è uno spazio politico, uno spazio di scelta. E ancora, lo psicoanalista Vittorio Lingiardi: il corpo è nel diritto e nella salute, nel linguaggio e nell’arte, nelle politiche di genere e nei movimenti di liberazione, nelle simulazioni robotiche e nel postumano. Penso che ci sia molto di questo nella mia ricerca. Cerco di definire il corpo come scrive il filosofo Emanuele Coccia: un insieme di alleanze con altri corpi per produrre idee. Perché i corpi hanno libertà (a volte garantite, a volte limitate) in base ad attributi più o meno ineluttabili. C’è una difficoltà nell’abitare il corpo: a volte lo si rifugge o lo si sfugge, perché (come scrive Olivia Laing in Everybody) «è nuda fonte di potere», non è altro che un sistema per processare il mondo là fuori.
Il titolo scelto per la sua nuova mostra, la prima in Brasile da Mendes Wood DM, è «Un gallo da solo non fa una mattina». Da dove arriva questa frase e cosa significa in relazione al progetto?
Sfogliavo la raccolta di poesie Museu de tudo di João Cabral de Melo Neto, affascinato dall’idea di un libro concepito non solo come un luogo, ma come il tutto di qualcuno, il tutto per qualcuno... che poi non è mai tutto, ma sempre una parte. La traduzione letterale è in realtà «un solo gallo non tesse un mattino». L’elemento fondamentale sta in quel «tessere». Di nuovo torna una trama, un ordito, un tempo concesso alla creazione del mattino, dell’inizio. Così è la mia pittura: non esiste una pennellata che non debba rendere conto alla seguente, al trovare una mediazione fra i tantissimi livelli, fra le liquefazioni e la ricreazione di forma nella sua stessa definizione. Un manto, un vello d’oro. Così, ancora una volta, è giunto prima il titolo del progetto: quel gallo che ha bisogno di altre mattine e altri canti; quella pittura che ha bisogno di profondità e ritorni, di addensamenti e rimozioni. È una mostra sulla pittura, sul fare.
L’allestimento è insolito per una mostra di pittura: come nasce e quale tipo di relazione voleva creare con lo spazio?
Dopo la mostra a Venezia dell’anno scorso, volevo unire la mia natura scenografica con quella pittorica. Volevo includere realmente lo spettatore, scardinare il rapporto verticale muro/dipinto, trasporlo anche orizzontalmente: claustrofobico, roboante, un’inclinazione al disordine. Mi sono chiesto che mostra avrei voluto vedere, che cosa mi richiedeva la pittura, fagocitatrice costante, insaziabile sibilla. Così il gallo ha cantato, e ho realizzato questo gigantesco pavimento dipinto, partendo dai bozzetti raccolti in anni e anni: quattro tele di sei metri per quattro, con una pedana posta sopra, da percorrere in precario equilibrio, in una stanza dai tratti volutamente claustrofobici. Immersivo, fintamente giocoso, spietato nella sua semplicità progettuale, complicato in quella pittorica. Un gigantesco mosaico, un campionario di vaghe bellezze. Una camera per infanzie nottambule.
In mostra si avverte un senso di vertigine e, al tempo stesso, di flemma emotiva. È un’atmosfera che potremmo avvicinare, per certi versi, al concetto di «saudade». Quali nessi ci sono tra la sua pratica e la cultura brasiliana?
Il Brasile ha accarezzato quella melanconia che risiede latente e che non si scotomizza che con la pittura. Ho trovato i tramonti più rosa che si possano immaginare, un rosa che non esiste se non in luoghi che hanno radici che smuovono, sismografie magiche. Per noi «ciao» è l’inizio, in portoghese la fine, il congedo. Lì in mezzo, c’è tutto.

Guglielmo Castelli (Torino, 1987) porta per la prima volta in Brasile una sua personale, fino al 16 agosto presso la galleria Mendes Wood DM, nella sede di Barra a San Paolo
Altri articoli dell'autore
La pittrice italiana di stanza a New York dipinge nature morte composte da prompt che sembrano usciti dal bagaglio di una costumista teatrale: travestimenti che danno vita a paesaggi instabili
Sin dal 2006, la galleria fondata a Lucerna si è impegnata a lungo termine nel tessere connessioni profonde che superano confini geografici e generazionali. Ne abbiamo parlato con l’attuale direttore della sede di Pechino René Meile
Da Massimodecarlo l’artista francese invita l’osservatore a riflettere sul significato profondo che attribuiamo alle cose, elevate a presenza paritaria rispetto alle forme viventi, enigmatiche e sfuggenti
«Essere nato in Etiopia e cresciuto in un Paese come l’Italia ha inevitabilmente condizionato il mio immaginario», racconta il pittore italiano che vive tra Londra e Milano: «A volte è necessario guardare oltre la nostra visione del mondo»