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La Tate Modern di Londra è stata inaugurata a maggio 2000 con oltre 4mila invitati e uno spettacoli di luci laser

Foto © Tate

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La Tate Modern di Londra è stata inaugurata a maggio 2000 con oltre 4mila invitati e uno spettacoli di luci laser

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I 25 anni della Tate Modern, centrale elettrica dell’arte contemporanea

Artisti e curatori riflettono sui successi del museo londinese, aperto a maggio 2000 in un edificio industriale dismesso, e sulle sfide future

Inaugurata l’11 maggio 2000 la Tate Modern, ha cambiato il modo di percepire il panorama artistico londinese, collocandolo saldamente sulla mappa internazionale. Il nuovo museo, progettato da Herzog & de Meuron in un’ex centrale elettrica di Bankside (opera di Giles Gilbert Scott) chiusa nel 1981, ha dato il «la» alla scena artistica contemporanea e moderna, inaugurando la fiera Frieze London, lanciata nel 2003, e un’ondata di gallerie commerciali internazionali.

In occasione dei festeggiamenti per i 25 anni della Tate Modern, l’artista Michael Craig-Martin ricorda com’è nata la «cattedrale dell’arte contemporanea» del Regno Unito. «Chi avrebbe mai immaginato, dice, che avremmo trovato un immenso sito abbandonato sul Tamigi, proprio di fronte a St Paul’s, degradato e relativamente poco costoso?». Prima della sua apertura, «l’arte moderna era considerata la parente povera dell'arte, degna di scarsa considerazione, prosegue Craig-Martin, che per due mandati, negli anni ’90, ha ricoperto il ruolo di artista-trustee. Il direttore della Tate dal 1989, Nicholas Serota, era determinato a cambiare questa situazione e noi trustee abbiamo cercato di sostenerlo nella realizzazione della sua visione incredibilmente ambiziosa».

La prima serie di mostre della collezione, a ingresso gratuito, fu organizzata per temi e periodi diversi, un'innovazione curatoriale per quell’epoca. La mostra inaugurale, «Century City», era incentrata su nove città, da Mosca a Rio de Janeiro, e all’epoca fu ampiamente criticata. «Il progetto era follemente ambizioso e destinato a deludere», scrisse «The Wall Street Journal». «Era una mostra globale, un manifesto, un progetto che ra una sorta di cavallo di Troia, perché ha scatenato gran parte di ciò che è venuto in seguito, afferma Frances Morris, ex direttrice della Tate Modern. Se fossimo riusciti a riunire in una mostra questi dialoghi geograficamente disparati, come avremmo potuto integrare queste storie nella collezione permanente?».
 

Fin dall’inizio la Tate Modern ha anche scelto di costruire una collezione veramente globale. Secondo alcuni critici si adottò un approccio tematico e più globale perché la collezione della Tate era lacunosa, mancante di opere fondamentali. «Sono sciocchezze, ribatte Morris. Volevamo creare un museo per il XXI secolo, che rispondesse alla popolazione sempre più diversificata del Regno Unito, con radici in contesti culturali molto diversi. In effetti abbiamo colmato le lacune evidenti nel canone storico dell'arte, tra cui la quasi totale assenza di donne o di artisti di colore. Volevamo dimostrare che la storia dell’arte poteva essere molto più ampia, ricca e complessa di quella raccontata in precedenza dalla Tate».

Questa portata globale si riflette nei numerosi comitati di acquisizione della Tate, che coprono regioni quali l’Asia Pacifico, il Medio Oriente e il Nord Africa. La Tate Modern ha notevolmente favorito l’accesso alle risorse e alle competenze dei mecenati, e i rapporti pubblicati annualmente dimostrano il successo del museo nella creazione di una vasta rete di benefattori che siedono nei suoi numerosi comitati di acquisizione.

«Abbiamo costruito reti di filantropi che condividono gli stessi ideali in diverse parti del mondo, uniti dal desiderio di vedere meglio rappresentata nella collezione nazionale del Regno Unito  l’arte di quella regione e le cui generose donazioni potrebbero essere utilizzate per acquisire opere incredibili», sottolinea Gregor Muir, direttore della collezione della Tate.

Ma il cambiamento non è solo questo: grazie a iniziative come Tate Collective, lanciata sette anni fa per i giovani tra i 16 e i 25 anni, c'è anche stata una crescita della fascia demografica più giovane. Secondo il rapporto annuale 2023/24 della Tate il collettivo è passato dall’avere 2mila membri ad essere il «più grande programma di membership giovanile al mondo nel campo dell'arte», con oltre 180mila membri attratti dai biglietti a 5 sterline e dagli sconti nei negozi e nei caffè.

 

Un nuovo pubblico

Una partnership annuale di lunga data tra la Tate e Hyundai ha riempito la Turbine Hall, la sala delle turbine della vecchia centrale, con opere che hanno attirato un nuovo pubblico, offrendo un nuovo tipo di esperienza museale, meno formale e più interattiva. La Turbine Hall, che non gode più della copertura mediatica del passato, è stata anche una rivelazione per gli artisti partecipanti.

«Le mostre al piano superiore sono a pagamento, ma la Turbine Hall è aperta a tutti, rimarca Olafur Eliasson, che nel 2003 vi ha allestito “The weather project”, la sua esperienza tra specchi e nebbia. Questo offre alle persone la possibilità di fare ciò che vogliono all'interno del museo, di appropriarsi dello spazio».

Secondo Morris nel corso degli anni la percezione del museo è cambiata: «La Tate Modern ha inaugurato nel 2000 con una forte identità, ma a distanza di 25 anni è un’istituzione alquanto diversa, più aperta, permeabile, interattiva».

Un quarto di secolo fa, le donne erano circa il 17% di tutti gli artisti della collezione. Alla domanda se questa percentuale sia aumentata, un portavoce della Tate risponde che le donne sono il 36% degli artisti esposti «e questa percentuale è rimasta pressoché costante dal 2016». Questa statistica potrebbe deludere alcuni, ma in realtà le artiste hanno dominato la programmazione espositiva, dalla popolare mostra di Yoko Ono nel 2024 alla vasta retrospettiva di Tracey Emin prevista per il 2026.
 

Nel frattempo, stando a un curatore britannico che ha preferito rimanere anonimo, il Blavatnik Building, ampliamento da 260 milioni di sterline della Switch House inaugurato nel 2016, appare «stranamente sottoutilizzato»: «Fino a poco tempo fa il programma di mostre ed eventi è stato innovativo, soprattutto negli spazi [per performance] Tanks, ma potrebbe osare di più».
 

Per gli artisti è stato un duro colpo la chiusura nel 2022 del Tate Exchange, il programma comunitario della Tate Modern ospitato nel Blavatnik Building. «Il Tate Exchange era uno spazio coraggioso per espandere la paternità della produzione culturale a una velocità sconosciuta al mondo dell'arte», è l’opinione di Clare Twomey, artista che nel 2017 ha trasformato lo spazio in un’installazione che riproduceva una fabbrica di ceramiche.
 

Qual è il futuro? Il quadro è desolante: la Tate ha tagliato il 7% della sua forza lavoro a seguito di un «calo reale» dei fondi pubblici e della diminuzione del numero di visitatori. Nel 2024, la Tate Modern ha registrato 4,6 milioni di visitatori, il 3% in meno rispetto all'anno precedente. Secondo Karin Hindsbo, direttrice della Tate Modern, ci sarà una maggiore attenzione alle pratiche artistiche indigene. Come ha dichiarato a «The Art Newspaper»: «Continueremo a rafforzare le storie transnazionali» ed è sua intenzione «correre dei rischi reali».
 

Morris confida in una visione coraggiosa: «Il prossimo quarto di secolo presenta un percorso molto diverso e necessita di una nuova mappa, riflette. Alla Tate Modern eravamo soliti definire le nostre esposizioni sperimentali come un “laboratorio”, in cui mettevamo alla prova noi stessi, gli artisti e il nostro pubblico. Non sarebbe emozionante sentire che alla Tate Modern abbiamo un laboratorio che sfida sé stesso e l'arte, e che pone domande difficili e fornisce delle risposte?».

Gareth Harris, 08 maggio 2025 | © Riproduzione riservata

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