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Il collezionista è come Josef K.

Rischia l’angoscia di un’accusa indeterminata e il mercato rischia la paralisi

Fabrizio Lemme

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Tra il 1914 e il 1917 Franz Kafka (1883-1924) scrisse Il processo, pubblicato postumo nel 1925. La trama del romanzo, nella sua essenza, è questa: un giovane procuratore di banca, Josef K., riceve, di prima mattina, la visita di due uomini sconosciuti, che gli notificano un mandato d’arresto per un’accusa assolutamente indeterminata, dalla quale si dovrà difendere avanti a un misterioso tribunale. L’epilogo è il suo pugnalamento in una buca nella quale viene posto da altri due sconosciuti, non riuscendo a pronunziare altro che la frase «come un cane!» Attenzione a questa storia: il collezionista d’arte è esposto a vicende molto simili. Lo dimostro raccontandovi una storia vera, nella quale ometto ogni riferimento che possa consentire l’individuazione dei personaggi reali. Un mio cliente possiede da molti anni un dipinto che gli è stato lasciato in morte da uno zio cardinale. L’opera, di un autore del Cinquecento, è in rapporto con un dipinto di assai maggiori dimensioni posto in una chiesa italiana (spesso il pittore, felice del risultato creativo dell’opera a destinazione ecclesiastica, la replicava più volte in dipinti di minore formato a destinazione privata).

In occasione di mostre temporanee il mio assistito l’aveva presentata più volte, senza incontrare difficoltà, all’Ufficio Esportazione, e da ultimo aveva chiesto un attestato di libera circolazione per poterla vendere all’estero. Qui comincia la storia kafkiana. La funzionaria dell’Ufficio Esportazione, leggendo l’opera di un cronista locale, scopre che in un’altra chiesa della medesima provincia esisteva una replica, qualificata peraltro, dal cronista, come «mediocre copia». Nel corso di un restauro della chiesa oltre cent’anni orsono la replica è scomparsamisteriosamente. La funzionaria è allora assalita dal dubbio che il dipinto presentato per l’esportazione possa coincidere con l’opera scomparsa? Nel dubbio, si sa, il funzionario, per pararsi da responsabilità amministrative, sceglie sempre l’ipotesi peggiore per il privato: sospende il rilascio dell’attestato di libera circolazione ed invia gli atti, per competenza, alle forze dell’ordine. Queste, a loro volta, sono felici di fare uno scoop e «recuperare» un dipinto (come sempre, «di inestimabile valore»!) da attribuire gratuitamente allo Stato. E, nonostante l’assenza di immagine, l’assenza di misure, in breve l’impossibilità di identificare l’opera presentata all’Ufficio Esportazione con quella scomparsa, le forze dell’ordine, senza ombra di dubbio (!!!), arrivano a tale identificazione nonostantesi tratti di un dipinto di elevata qualità, non di una mediocre copia come descritto dal cronista locale! Ne viene dunque richiesta la restituzione alla chiesa dalla quale sarebbe stato sottratto, anche in virtù della «presunzione di appartenenza allo Stato di tutto il patrimonio culturale» (così, testualmente, nel rapporto delle forze dell’ordine: e c’è da restare sbigottiti, perché in tal modo tutto il collezionismo privato di beni culturali consisterebbe sempre in un furto ai danni della collettività! È evidente come le forze dell’ordine abbiano fatto una confusione tra il patrimonio archeologico proveniente dal sottosuolo italiano, che si presume di proprietà dello Stato, e il patrimonio culturale, che comprende tutti i prodotti della creatività umana aventi oltre cinquant’anni e da riferire ad autore non più vivente. Le due nozioni chiaramente non coincidono: l’equivoco delle forze dell’ordine appare manifesto e, se mi è consentito, anche particolarmente grave). Il p.m. aderisce con entusiasmo alla tesi delle forze dell’ordine, della quale legge solo le conclusioni e non tutto l’aberrante percorso seguito per arrivare all’identificazione: operazione impossibile mancando qualsiasi elemento relativo a uno dei termini di riferimento! Ho proposto naturalmente opposizione e attendo gli eventi.

Ma, nell’attesa, vorrei formulare delle riflessioni. Innanzitutto, il tribunale è misterioso: è quello del luogo ove è stato presentato il dipinto? È quello del luogo ove il dipinto normalmente si trova? Anche perché, nel nostro ordinamento processuale, vige una regola fondamentale: il tribunale competente è quello del luogo ove il reato è stato commesso.

Ma nella specie, quale reato viene configurato, centocinque anni dopo la scomparsa del dipinto? Ammesso si sia trattato di un furto (ipotesi tutta da verificare, in quanto l’alternativa della distruzione è, sul piano logico, egualmente valida), l’autore del delitto non potrebbe essere l’attuale proprietario che allora non era neppure nato.

Potrebbe essere allora questi un ricettatore? Le forze dell’ordine, magnanimemente, lo escludono: il proprietario si è comportato bene, non li ha mandati a quel paese, si è umilmente presentato con il cappello in mano e quindi merita ogni benevolenza. Ma un reato a monte certamente vi è stato: magari il cardinale che l’ha lasciato ai nipoti l’ha sottratto alla chiesa oppure lo ha scientemente ricettato: e questo basta. 

In tale situazione, ci asteniamo da commenti: ogni lettore potrà trarre la morale della vicenda per conto suo. Aggiungiamo solo una cosa: come ogni eccesso, anche l’ipertutela dei beni culturali porta a esiti nefasti. In particolare, porta allo scoraggiamento del loro acquisto, in conclusione alla morte del mercato, condizione indispensabile per la libertà della cultura, come spesso ho scritto in questo giornale. Il libero mercato è infatti condizione per tale fondamentale libertà: in alternativa, vi è solo la cultura di Stato.

Fabrizio Lemme, 12 marzo 2017 | © Riproduzione riservata

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