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Matteo Cocci
Leggi i suoi articoliSebbene il cinema dell’orrore produca incassi da miliardi di dollari, nel nostro Paese questo genere è oggi praticamente inesplorato da registi e soprattutto da produttori che concentrano i loro sforzi sulle commedie e su film “impegnati” che spesso faticano anche solo a rientrare negli alti costi sostenuti per realizzarli. Eppure, in passato diverse figure di spicco del cinema italiano legarono la propria fortuna, sia a livello di critica che di incassi – spesso ottenuti più all’estero che in Italia –, ai film “del brivido”: Dario Argento, Lucio Fulci, Mario Bava, Pupi Avati e Ruggero Deodato sono solo alcuni dei nomi che ancora oggi influenzano la poetica dei più importanti autori internazionali.
Decretare la morte di questo filone sarebbe tuttavia errato: nonostante le enormi difficoltà sia produttive che distributive, in Italia ci sono ancora registi che decidono di cimentarsi con il cinema horror, e di farlo con dedizione e competenza. Tra questi c’è Paolo Strippoli, classe 1993 a cui sono stati necessari ben sette anni prima di trovarsi nelle condizioni di cominciare le riprese del suo terzo film, La valle dei sorrisi (2025), presentato in occasione dell’ultima edizione della Mostra del Cinema di Venezia e uscito in sala lo scorso 17 settembre. Il film non segna di certo il primo incontro di Strippoli con il cinema dell’orrore: nel 2021 aveva co-diretto insieme a Roberto De Feo A Classic Horror Story, irriverente racconto folk horror ambientato in una Calabria cinica e quanto mai selvaggia e arcaica, mentre nel 2022 aveva firmato in solitaria la regia di Piove, in grado di mixare le terrificanti atmosfere di una Roma dal cielo costantemente plumbeo e il dramma di una famiglia (e di una società) che sembra non trovare strade alternative all’odio reciproco di fronte ai drammi quotidiani.
L’elaborazione del dolore e del lutto torna a essere il leitmotiv anche ne La valle dei sorrisi, co-sceneggiato da Strippoli insieme a Jacopo Del Giudice e Milo Tissone. Il film – la cui idea originaria si era aggiudicata nel 2019 il Premio Solinas per il Miglior Soggetto – ruota intorno alla figura di Sergio Rossetti (Michele Riondino), il nuovo insegnate di educazione fisica di Remis, un piccolo paesino nascosto in una valle isolata tra le montagne dove, nonostante un recente e terribile incidente ferroviario abbia causato 46 vittime, gli abitanti del paese dimostrano una felicità assoluta. Rossetti, che nasconde una grande sofferenza, fatica a integrarsi, fino a quando Michela (Romana Maggiora Vergano) decide di introdurlo al segreto del paese: un rituale grazie al quale i membri della comunità si riuniscono per abbracciare Matteo (Giulio Feltri), un adolescente capace di assorbire il loro dolore e donare la serenità tanto agognata, per questo soprannominato “l’angelo di Remis”.
Con il suo ultimo lungometraggio Strippoli conferma gli orientamenti che si erano percepite con Piove: la sua visione del cinema horror si rifà a una tendenza internazionale, quella di ibridare gli stereotipi e i meccanismi tipici di questo filone narrativo con storie drammatiche che sono in grado di funzionare anche autonomamente, ma trovano nel cinema di genere l’opportunità di incidere maggiormente nell’immaginario collettivo. La valle dei sorrisi riesce nel suo scopo di intrattenere – grazie a una parabola a dir poco inquietante, in cui Strippoli dimostra di saper padroneggiare la materia filmica – e al tempo stesso costruire archi narrativi complessi. La pellicola induce infatti a meditare su tematiche profonde come l’insostenibilità del senso di colpa di fronte alla morte dei propri cari – è il caso del professore interpretato da Riondino –, l’incapacità di processare il dolore causato da una tragedia collettiva – gli abitanti di Remis – o l’inevitabile esplosione di chi sente di non esistere se non per accogliere incondizionatamente la sofferenza altrui – l’adolescente e isolatissimo Matteo.
Strippoli, con la sua terza regia, si presenta dunque come una delle voci più interessanti del cinema italiano contemporaneo, mettendo a punto un racconto che, sebbene rifacendosi ai grandi maestri internazionali – le sequenze iniziali ricordano molto quelle di capolavori come Shining (1980) o la serie Twin Peaks (1990) –, è in grado di sviluppare un linguaggio autonomo e riconoscibile. In un momento di forte incertezza per l’industria cinematografica nostrana, La valle dei sorrisi sembra indicare una nuova strada per mettere in scena le storie su cui il cinema si concentra fin dalla sua nascita, ovvero quella di portare all’estremo, perfino nel territorio del soprannaturale, la rappresentazione delle relazioni umane, fornendoci uno specchio, seppur tremendamente deformato, in cui rifletterci.

Una scena de La valle dei sorrisi (2025) di Paolo Strippoli

Una scena de La valle dei sorrisi (2025) di Paolo Strippoli
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