Un fitto ordito di connessioni lega la Sardegna a New York, fatto di emigrazione, di personaggi come Costantino Nivola che qui costruì la sua intera carriera, e di luoghi quale oggi è il Magazzino Italian Art, museo fondato dal sardo Giorgio Spanu con la moglie americana Nancy Olnick nella Hudson Valley, recentemente insigniti a Firenze del Premio Rinascimento+. Quell’ordito si arricchisce dei fili delle opere di Maria Lai (1919-2013), cui Magazzino, dal 15 novembre al 28 luglio 2025, dedica la mostra «Maria Lai. A Journey to America», una retrospettiva che approfondisce il lavoro dell’artista sarda in relazione al suo viaggio del 1968 in Canada e negli Stati Uniti. Curata da Paola Mura, direttrice artistica di Magazzino, la mostra presenta circa 100 opere.
Il percorso si snoda attraverso le fasi della vita e della ricerca artistica di Maria Lai, iniziando da un corpus di opere che, come il viaggio di Lai, partono dalle radici, dalla Sardegna: il paesaggio e la cultura sardi sono al centro dei suoi primi lavori come «Veduta di Cagliari» (1952) e «Ritratto di Salvatore Cambosu» (1952), entrambi esposti a Magazzino. Il trasferimento a Roma nel 1956 è il primo passo di un’apertura di prospettive che trasformerà il suo lavoro. Nella capitale Lai entra in contatto con l’Arte Povera (cui è dedicata la collezione permanente di Magazzino) e frequenta gallerie che espongono Kline, Twombly, Rauschenberg. Nascono in questo periodo lavori in cui la Sardegna è ancora fonte di ispirazione, ma dove appaiono i segni di un’arte che aspira a superare i limiti del realismo. Tra queste è visibile in mostra «Gregge di pecore» (1959), un dipinto di 3 metri per 1,20 conservato dal Consiglio Regionale della Sardegna e mai esposto altrove. Seguono anni di sperimentazioni e di isolamento. «Lai si ritira dalle gallerie e dal mondo dell’arte, racconta Paola Mura. Ha bisogno di fare un viaggio introspettivo, di capire quale strada intraprendere».
È allora che, approfittando dell’emigrazione a Montreal della famiglia Dau a cui era legata da tempo, parte verso il Canada e gli Stati Uniti. «Un viaggio in solitaria in cui l’artista portò con sé, forse con la speranza di esporli, alcuni suoi lavori più recenti, consapevoli della pittura gestuale e che riflettevano le sperimentazioni di un momento di passaggio tra il figurativo e l’astrazione», aggiunge Mura. Una mostra americana non ci fu mai, ma le opere che con lei avevano attraversato l’Atlantico rimasero lì, custodite dalla famiglia Dau e mai esposte. Per la prima volta, a Magazzino ne sono in mostra sette. Nelle settimane oltreoceano Lai viaggia in Ontario, visita New York, entra in contatto con la cultura dei nativi americani per le cui espressioni visive sviluppa un forte interesse. «Al suo ritorno in Italia, Lai sembra trovare il coraggio di far vedere al pubblico alcune delle sue sperimentazioni. Torna a esporre e per la prima volta presenta i suoi “Telai”, prosegue Mura. In quegli anni nasce quella che è forse la serie più nota nella sua produzione, ispirata agli strumenti utilizzati storicamente dalle donne sarde per creare oggetti di uso quotidiano». A questa serie la mostra dedica un’ampia sezione.
Oltre Atlantico Maria Lai non tornerà più. Lo faranno le sue opere, esposte nel 1979 in una collettiva alla Columbia University. Da quel viaggio in poi, l’attenzione verso la cultura americana continuerà a entrare nel suo lavoro. Spiega ancora la curatrice: «Abbiamo ripercorso le altre fasi in relazione al viaggio del ’68, evidenziando come la cultura americana sia stata un’influenza importante. Non solo perché alcune delle cromie che poi userà nei “Telai” e nei “Libri cuciti” sono vicine a quello che lei potrebbe aver visto nell’arte tradizionale dei nativi, ma anche perché in alcune opere richiama esplicitamente la storia americana, come “Millequattrocentonovantadue” e “Il canto delle formiche rosse” (1992), dedicate ai 500 anni del viaggio di Colombo, libri cuciti dai colori vivaci che riportano fitte scritture asemantiche». Più in là, colpita dalla tragedia dell’11 settembre 2001, Lai realizza il telaio «La torre». Infine, ci fu l’amore per la poesia di Walt Whitman cui tornò più volte nella sua carriera, fino all’ultima azione collettiva, «Essere è tessere» (2008), quando, quasi novantenne, coordinò la creazione di una serie di opere tessili accompagnate da letture di versi del poeta americano. Anche queste opere sono esposte a Magazzino.