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Alice Amato

Foto: Nick Harmer

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Alice Amato

Foto: Nick Harmer

Intervista ad Alice Amati: «Il gallerista è una presenza costante in un sistema fragile»

La giovane gallerista italiana lavora a Londra, da dove immagina nuove traiettorie per l’arte contemporanea

Giorgia Aprosio

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È passata dall’underground di Manchester alla vivacità di Londra. Qui ha aperto la sua galleria e, in soli due anni, è riuscita a farsi notare per collaborazioni vincenti, stand curati e una direzione artistica sempre più nitida: dalla proposta a NADA New York con Danielle Fretwell, alla selezione raffinata per Art Brussels con Nicholas Marschner, fino alle stratificazioni pittoriche di Rafal Topolewski, presentate ad Artissima, a Torino. Con uno sguardo internazionale e una chiara predilezione per la pittura, Alice Amati ha costruito un programma espositivo che sostiene con coerenza e visione gli artisti della sua generazione. Alla base, un credo semplice ma potente: accompagnare gli artisti oggi per costruire un sistema più sano domani. Una visione che si traduce anche in progetti complementari, come Apollo Painting School – fondata nel 2023 insieme agli artisti Louise Giovanelli e Ian Hartshorne – e nel nuovo project space con residenza che sta per inaugurare a Roma, dal nome evocativo che tradisce una certa nostalgia per l’Italia: Domus Nostra. L’abbiamo incontrata a Londra per ripercorrere le tappe del suo percorso, guardare al futuro e riflettere su come si immagina il gallerista di domani.

Londra – Partiamo dall'inizio. La tua è la storia di una passione autentica e di una visione maturata con il lavoro sul campo. Quando hai capito che volevi fare la gallerista?
È stata Manchester, durante il master in Art Galleries and Museum Studies, a farmi scoprire la mia passione per l'arte contemporanea — più di quanto fossero riusciti a fare gli anni di studio dedicati all'arte classica e moderna. Quella città ha fatto nascere in me nuove consapevolezze: per la prima volta mi sono ritrovata immersa in una comunità viva, abitata da artisti della mia generazione, animata da project space autogestiti e da piccole gallerie, come The International 3 o Castlefield, molto attive e interconnesse. Mi ha fatto capire che preferivo stare vicino a chi l'arte la fa, piuttosto che osservarla oppure raccontarla da lontano.

Questa nuova consapevolezza ti ha poi guidata attraverso esperienze molto diverse: partendo da Taymour Grahne Projects arrivando fino a David Zwirner. Quali tappe ti hanno portata a pensare di voler aprire la tua galleria?
Dopo il master mi sono trasferita a Londra, dove sono rimasta quasi otto anni. Ho lavorato in contesti molto diversi tra loro, da realtà indipendenti a colossi internazionali. Con il tempo ho iniziato a sentire che il mio lavoro quotidiano mi stava allontanando da ciò che davvero mi motivava: accompagnare gli artisti fin dagli inizi, crescere insieme a loro, costruire qualcosa in comune. Così a un certo punto ho deciso di fare un reset. Avevo bisogno di creare uno spazio mio, dove poter restare fedele a ciò in cui credo, senza bisogno di scendere necessariamente a compromessi.

C’è qualche episodio legato al momento in cui hai pensato "basta, adesso è il mio momento"?
Ricordo un colloquio per una posizione junior, anni fa. Il direttore mi fece la classica domanda: «Dove ti vedi tra cinque anni?». E io, senza pensarci troppo, risposi: «Tra cinque anni avrò aperto la mia galleria». Credo che all'epoca fosse ancora una visione più che un piano concreto, eppure quella visione oggi è diventata realtà. Il tuo programma espositivo rispecchia fedelmente le intenzioni iniziali: artisti della tua generazione, scelti su scala internazionale. Come hai costruito questa rete? Si tratta per lo più di relazioni già esistenti, o nate dopo l'apertura? Circa il 30% degli artisti con cui collaboro oggi li conoscevo già prima di aprire la galleria. Gli altri no, ma questo non significa io li abbia necessariamente scoperti dopo. Erano nomi che seguivo da tempo, in alcuni casi da anni. Semplicemente, non avevo ancora trovato la scusa giusta per contattarli.

Veduta dell’installazione di Alice Amati con le opere di Danielle Fretwell a NADA New York 2025. Courtesy l'artista e Alice Amati. Foto: Gabriele Abbruzzese

Con quali canali principalmente ti capita di fare scouting?
I degree show, soprattutto fuori Londra e nel resto d'Europa, sono una fonte preziosa. Poi ci sono le residenze internazionali; i premi per artisti emergenti; e naturalmente le riviste di settore. A volte, però, avviene anche per caso. È successo, ad esempio, con Paul Robas: l'ho visto per la prima volta in un piccolo spazio a Napoli, sulla strada per andare a trovare dei parenti. Non lo conoscevo, ma ho sentito subito una forte affinità e siamo finiti a lavorare assieme. E poi c'è il passaparola tra artisti, che per me conta tantissimo. Quando qualcuno di loro mi consiglia di guardare all'opera di qualcun altro, cerco sempre di approfondire, andare in studio, conoscerli meglio. Mi fido molto del loro sguardo. 

Spazio di visibilità, attenzione alla qualità tecnica del lavoro, apertura verso geografie non convenzionali nei circuiti dell’arte, e un’idea di collaborazione che rafforzi tutte le parti coinvolte: la linea che stai tracciando sembra rispondere a un’esigenza concreta e condivisa, sentita da molti artisti e operatori della tua generazione.
Assolutamente sì. Nel contesto londinese, ho osservato con sempre più chiarezza uno schema ricorrente: una cerchia ristretta di artisti, appena usciti da accademie prestigiose, venivano subito corteggiati da più gallerie, ricevevano attenzione, supporto economico, visibilità. Chi non aveva frequentato le "scuole giuste" o non viveva nei centri nevralgici del sistema, veniva semplicemente ignorato.

Ed è questo il bisogno a cui cerchi di rispondere?
Vorrei cercare di riequilibrare, almeno in parte, questa dinamica. Offrire spazio a chi non l'ha mai avuto, quando invece lo meritava. Le prime due mostre della galleria sono nate proprio da questo desiderio. La prima è stata una collettiva che ha portato a Londra artisti provenienti dagli Stati Uniti, dalla Colombia, dal sud della Francia e dai Paesi Bassi. Per molti era la prima volta in città, per alcuni la prima esperienza in uno spazio commerciale. È il caso, ad esempio, di Danielle Fretwell, che oggi è una delle artiste rappresentate dalla galleria. La seconda mostra è stata un omaggio a Manchester: abbiamo riunito cinque artisti diplomati nella città nell'arco di dieci anni. Alcuni, come Louise Giovanelli, erano già noti. Altri, come Fischer Mustin, non avevano mai esposto al di fuori dell'accademia. Metterli insieme in un'unica mostra è stato un modo per riportare l'attenzione su un contesto periferico ma ricco di energie, e per far emergere nuove voci, accanto a quelle già consolidate.

Veduta della mostra di Annabelle Agbo Godeau, What Have You Done with Her? (Part 2), Alice Amati, Londra, 2024. Courtesy l'artista e Alice Amati. Foto: Tom Carter

Hai citato Danielle Fretwell, pittrice basata nel New Hampshire (USA), a cui hai dedicato un bellissimo progetto monografico presentato sia in galleria che in fiera, e che ha ricevuto ottimi riscontri a NADA New York. La pittura è chiaramente un elemento centrale nella tua programmazione. Come interpreti questa rinnovata centralità del medium, sia dal punto di vista critico che dal lato del mercato?
Credo che la pittura sia un linguaggio che ritorna sempre, soprattutto nei momenti di crisi. Ha una capacità unica di adattarsi al presente e di reinventarsi continuamente. È un medium aperto, poroso, che ancora oggi consente sperimentazioni reali. Al tempo stesso, conserva una forza narrativa — o anti-narrativa — che pochi altri linguaggi visivi riescono a mantenere con la stessa intensità. Ha un'immediatezza che coinvolge subito, ma sa anche costruire un rapporto profondo e duraturo, a patto che le si dedichi tempo. Quando l'opera è valida, quel legame si crea, e resta. E poi per me è anche una questione personale. È il linguaggio che conosco meglio, quello di cui ho studiato a fondo la storia, ma che ancora oggi riesce a sorprendermi. Questa capacità di meravigliarmi, per me, è fondamentale.

A proposito di pittura, tra i progetti che segui c’è anche Apollo Painting School, nata nel 2023 a Manchester insieme ai pittori Louise Giovanelli e Ian Hartshorne, un progetto che propone una critica costruttiva alla formazione accademica tradizionale, e sembra completare il discorso sulla necessità di alternative reali al sistema esistente. Com’è nato concretamente?
Apollo è nato dal confronto tra amici. Io, Louise e Ian ci trovavamo spesso a parlare — ognuno dal proprio punto di vista — di ciò che non funzionava nella formazione accademica degli artisti, soprattutto dei pittori. Louise, come artista, aveva vissuto quel percorso sulla propria pelle. Ian lo aveva insegnato per anni. Io lavoravo con tanti giovani appena usciti dalle scuole e vedevo da vicino le difficoltà del passaggio tra studio e mondo professionale. I percorsi erano differenti ma ci accomunava un certo grado di frustrazione. A un certo punto ci siamo guardati e ci siamo detti: abbiamo gli strumenti per proporre qualcosa di diverso. E così abbiamo fatto. Apollo è un'associazione no-profit nata con l'obiettivo di offrire un'alternativa accessibile e di alta qualità alla formazione tradizionale con un intento chiaro: decentrare. Ed è per questo abbiamo scelto di partire da Manchester e da Latina, piuttosto che Londra o Roma. Il programma si articola in due fasi. La prima è dedicata allo studio: tecniche pittoriche, laboratori, incontri sul funzionamento del sistema dell'arte. La seconda è orientata alla produzione e allo scambio. Alla fine, i partecipanti presentano il proprio lavoro in due mostre: una in Italia, l'altra nel Regno Unito. La prima edizione si è conclusa con un'esposizione al Museo Cambellotti di Latina e una nella mia galleria a Londra, ma stiamo già costruendo una rete più ampia, con l'idea di cambiare sede ogni anno e portare il progetto in luoghi sempre diversi.

Veduta dell’installazione di Alice Amati con le opere di Nicholas Marschner ad Art Brussels 2024. Foto: Gabriele Abbruzzese. Courtesy l’artista e Alice Amati.

Hai aperto da relativamente poco, ma alcuni degli artisti su cui hai puntato stanno già ottenendo ottimi riscontri. Guardando indietro a questi primi anni, c’è stato un momento in particolare in cui hai sentito di aver fatto la scelta giusta?
Ce ne sono tanti. Il solo fatto che esista una galleria con il mio nome, e che artisti che stimo profondamente abbiano scelto di affidarmi la loro carriera, è già un motivo d'orgoglio. Ma se penso ai momenti simbolici, direi che a emozionarmi maggiormente sono tutte le "prime volte": la prima fiera con Nicholas Marschner ad Art Brussels 2024, la prima co-rappresentanza con una galleria internazionale per Rafal Topolewski, la prima acquisizione museale, il primo articolo sulla stampa che ha parlato del nostro programma. Ognuna di queste tappe mi ha dato la conferma che valeva la pena fare questo salto, proprio ora, proprio con questi artisti.

In un sistema dell’arte popolato da ruoli sempre più ibridi e indefiniti, scegliere di aprire una galleria è oggi un gesto chiaro, quasi una presa di posizione. Cosa significa per te rivestire e investire ancora in questo ruolo, e in che direzione pensi debba evolvere?
Finché ci sarà arte ci saranno artisti. E finché ci saranno artisti, ci sarà bisogno di qualcuno che li accompagni, li ascolti, li aiuti a crescere. Il gallerista è questo: una presenza costante in un sistema fragile. È un'alleata, una mediatrice, a volte anche una figura materna. Non credo che questo cambierà. Forse in futuro lo spazio fisico non sarà più necessario. Ma oggi, per me, lo è ancora. Perché è la nostra casa: un luogo dove chi ci cerca sa dove trovarci. E dove chi non ci conosce può entrare, scoprire, tornare, e tornare ancora.

Costruire una realtà da zero comporta inevitabilmente delle difficoltà. Quali sono state le sfide più significative che hai incontrato lungo il percorso, e quale consiglio sincero daresti a chi oggi vuole intraprendere questa strada?
Prima di tutto: chiediti se è davvero quello che vuoi fare. Perché è un percorso bellissimo, ma anche molto duro. Le difficoltà sono tante, costanti. Ci vuole determinazione, pazienza, visione. E poi: l'unica bussola sei tu, non paragonarti mai agli altri. Guardare troppo agli altri ti fa perdere la tua direzione, rischi di inseguire qualcosa che non ti appartiene. 

Chiudiamo con gli appunti in agenda: quale sarà la prossima mostra e quale la prossima fiera?
La prossima fiera sarà Art-O-Rama, a Marsiglia. In galleria, invece, inaugureremo il 10 luglio una mostra curata da Samuele Visentin, che riunisce dieci artisti internazionali, tutti nuovi al programma. È pensata come una storia d'amore estiva: ogni opera rappresenta una fase — l'arrivo in un luogo sconosciuto, il primo incontro, l'infatuazione, l'intimità, la separazione. Il tutto filtrato attraverso uno sguardo queer, dove momenti personali e riflessioni politiche si intrecciano in un racconto libero e sensibile.

Giorgia Aprosio, 26 giugno 2025 | © Riproduzione riservata

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