Luca Zuccala
Leggi i suoi articoli«Il silenzio è d’oro» recita il ricamo di Alighiero Boetti (lo pubblichiamo sulla copertina di questo mese) su uno dei suoi celebri Arazzi proveniente dalla Collezione Agrati. Un silenzio prezioso che, come l’azione dell’artista, raccoglie in sé un esercizio di resistenza. L’arte, come il silenzio, ha la possibilità di rivelare l’impossibile?
Quando penso al contributo che sia l’esperienza religiosa che l’esperienza artistica potranno dare, in un futuro prossimo, alla convivenza umana, mi viene in mente la condivisione di quell’immenso patrimonio che è il silenzio. Già la narrativa biblica di Babele mette a nudo i limiti dell’impulso totalizzante della parola o dell’immagine. Anche se costruiamo la parola o l’immagine come una torre che ci fa raggiungere il cielo, dobbiamo accettare che entrambe sono ancora insufficienti. Abbiamo bisogno dell’aiuto di un’altra scienza, quella del silenzio, quella delle domande che nessuna risposta esaurisce. Un autore della fine del VII secolo, Isacco di Ninive, insegnava: «La parola è l’organo del mondo presente. Il silenzio è il mistero del mondo che sta per arrivare». I mistici non si sono mai stancati di esplorare questa via. Si veda il persiano Rûmi (1207-47): «A colui che conosce Dio mancano le parole». O, in un’altra geografia, l’annotazione filosofica di Lao Tse: «Il suono più forte è il silenzio».
Esiste a suo parere un possibile parallelismo tra vocazione religiosa e vocazione artistica?
Conosciamo l’impatto sismico del verso di Friedrich Hölderlin che dice: «Ciò che resta lo fondano i poeti». Dopo questo grido, ridurre la pratica artistica a una pura ricerca sui limiti della soggettività sembra ancora più banale. Martin Heidegger lo ha capito perfettamente, imponendo una riflessione di campo: la partita decisiva si gioca non nel campo dell’estetica ma in quello dell’ontologia, anche se problematizzandolo. Per questo, precisamente nel suo storico discorso agli artisti, papa Paolo VI ha potuto dire: «Noi abbiamo bisogno di voi. Il Nostro ministero ha bisogno della vostra collaborazione. Perché, come sapete, il Nostro ministero è quello di predicare e di rendere accessibile e comprensibile, anzi commovente, il mondo dello spirito, dell’invisibile, dell’ineffabile, di Dio. E in questa operazione, che travasa il mondo invisibile in formule accessibili, intelligibili, voi siete maestri».
Papa Benedetto XVI «era assolutamente consapevole di dover fare affidamento sulla cultura per trasmettere il suo messaggio spirituale». Un’opera d’arte oggi può davvero toccare le corde della coscienza e rendere una persona migliore? O, perlomeno, elevare la sua attenzione dal mondo materiale a quello spirituale? È ancora valida l’affermazione «Abbiamo bisogno di voi» rivolta agli artisti da Paolo VI nel 1964?
In quella che è stata la prima visita di un papa alla Biennale di Venezia, papa Francesco ha incominciato il suo discorso così: «Vi confesso che accanto a voi non mi sento un estraneo: mi sento a casa». E lo ha spiegato recuperando la categoria politica di «città rifugio». L’arte sarebbe «un’entità che disobbedisce al regime di violenza e discriminazione per creare forme di appartenenza umana capaci di riconoscere, includere, proteggere, abbracciare tutti. Tutti, a cominciare dagli ultimi». Allora, rispondendo alla sua domanda: un’opera d’arte non solo può rendere una persona migliore. Può, se vogliamo, trasformare la morfologia del mondo, «collaborando per liberare il mondo da antinomie insensate e ormai svuotate».
A pochi giorni dalla Giornata della Memoria l’artista Marcello Maloberti ha ribadito il senso della Testimonianza e della Memoria di cui l’arte è portatrice. Un tempo l’arte religiosa era la «Biblia pauperum», ma oggi la Chiesa che cosa si aspetta che l’arte comunichi a chi la contempla?
Rispondo raccontando una storia, quella della poesia «Requiem» della straordinaria poetessa russa Anna Achmatova. Questa poesia, che parla di come si può sopravvivere al terrore del totalitarismo, fu composta per frammenti, che furono imparati a memoria dagli amici fidati dell’autrice. Quando morì Stalin, i frammenti vennero riassemblati e la poesia venne finalmente pubblicata. La missione dell’arte è testimoniare. L’arte è un documento dell’umano come lo sono le nostre ossa o, un giorno, la cenere delle nostre ossa. L’arte abita le più importanti tensioni che ci costituiscono e può dirlo.
L’8 dicembre 1965 i Padri del Concilio Vaticano II affidavano a tutti gli artisti questo messaggio: «Il mondo in cui viviamo ha bisogno di bellezza per non oscurarsi nella disperazione. La bellezza è ciò che mette la gioia nel cuore degli uomini, resiste all’usura del tempo, unisce le generazioni e le congiunge nell’ammirazione. E ciò grazie alle vostre mani». Un messaggio che è stato in seguito ribadito da Giovanni Paolo II (nel 1999) e da Benedetto XVI (2009). Le viene in mente qualche opera degli ultimi decenni o un artista in particolare che possa aver tenuto fede a questo compito di consolare, comunicare gioia e salvare l’uomo dalla disperazione di fronte agli orrori cui assistiamo quotidianamente?
Su questo argomento sono incondizionatamente ottimista. Credo a quello che si legge nelle Lettera agli Ebrei: «Siamo circondati da una così grande schiera di testimoni» (Eb 12, 1). Per dare un unico esempio: quando ho visitato la Cappella di Saint Benedict a Sumvitg, in Svizzera, progettata da Peter Zumthor, ho pianto a lungo, con le lacrime di un bambino. Non sapevo fino a quel momento che è di piccole cose che si compone il miracolo. E penso anche all’opera di due artisti che stanno collaborando in questo momento con il Dicastero per la Cultura e l’Educazione: l’albero di parole che Marinella Senatore ha «piantato» nel Carcere di Rebibbia in occasione dell’inaugurazione della Porta Santa (ha preso le frasi dei detenuti e le ha fatte salire in alto), così come il lavoro con cui Yan Pei-Ming inaugurerà lo Spazio Conciliazione 5, proprio nel mese di febbraio, sempre in rapporto con la comunità carceraria.
Come affermava Marc Chagall, «i pittori per secoli hanno intinto il loro pennello in quell’alfabeto colorato che era la Bibbia». A quali testi e a quali autori può attingere un artista che voglia rispondere alle aspettative della Chiesa oggi? San Giovanni Damasceno (VII-VIII secolo) invitava il non credente desideroso di conoscere la fede cristiana non a un dibattito teologico, bensì a entrare in una chiesa e a contemplare i dipinti e le statue là presenti: «Se un pagano viene e ti dice: “Mostrami la tua fede!”, tu portalo in chiesa e mostra a lui la decorazione di cui è ornata e spiegagli la serie dei sacri quadri». Che cosa potrebbe mostrare un artista del XXI secolo a un pagano?
Quello che mi viene in mente immediatamente sono le parole di Gesù: «Venite e vedrete» (Gv 1, 39). Viviamo in un’epoca dominata dall’esplosione del digitale e dal trionfo delle tecnologie di comunicazione a distanza, in cui lo sguardo umano è sempre più differito e indiretto, correndo così il rischio di rimanere distaccato dalla realtà stessa. La contemporaneità preferisce metaforizzare lo sguardo. Vedere con i nostri occhi, però, conferisce alla visione uno statuto unico, poiché ci coinvolge direttamente nella realtà e ci rende non spettatori, ma testimoni. Questo è ciò che accomuna l’esperienza religiosa con l’esperienza artistica: in entrambe è valorizzata l’implicazione totale del soggetto. Parlando del suo film, «Il Vangelo secondo Matteo», Pasolini ha confessato che il suo fascino per il Gesù narrato dall’evangelista Matteo è quello «ai limiti della metaforicità, fino a essere una realtà». Riacquistare la capacità di guardare la realtà, come punto di partenza per ridisegnarla, coreografando nuove possibilità: questa è la vocazione degli artisti, come ricordato da papa Francesco in occasione dello storico incontro nella Cappella Sistina. «Voi artisti», disse allora il Santo Padre, «avete la capacità di sognare nuove versioni del mondo. E questo è importante: nuove versioni del mondo. La capacità d’introdurre novità nella storia».
Dopo la bufera dell’iconoclastia, il Secondo Concilio di Nicea del 787 usò come argomento decisivo per ricollocare le immagini nella fede e nella cultura cristiana il mistero dell’Incarnazione: «Se mediante la sua umanità il figlio di Dio è entrato nel mondo delle realtà visibili, gettando un ponte tra il visibile e l’invisibile, analogamente l’icona non è venerata per sé stessa, ma rinvia al soggetto che rappresenta». Oggi che siamo sommersi dalle immagini, l’immagine-opera d’arte può ancora rimandare per via analogica al trascendente? L’arte contemporanea tende ad avere soggetti forti e un’estetica disturbante. Può ancora comunicare serenità e fiducia in Dio?
L’estetica delle avanguardie novecentesche, di cui parliamo ancora la lingua, ha spesso abbracciato il cammino del rifiuto del bello perché ha riconosciuto il rischio associato alla sua espressione unilaterale: quello di una rappresentazione che «dimentica» o peggio rimuove le contraddizioni del reale e dell’anima umana, le dissonanze, la ferita inferta alla condizione creaturale dal male e dal dolore. Questa per me è una lezione profondamente cristiana: nella Resurrezione noi custodiamo la memoria della Croce, il Risorto si fa riconoscere dalle sue ferite: «Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani», dice Gesù a Tommaso, «tendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e non essere incredulo, ma credente!» (Gv 20, 27). Per essere credente, il cristiano deve guardare in faccia e toccare con mano l’angoscia del sofferente, il grido della vittima, la ferita dell’ingiustizia. Certo, quest’impegno di verità non deve divenire a sua volta ideologia nichilistica: la Croce è per noi luogo di speranza e non di disperazione. Ma anche l’arte, quando attraversa il male e il dolore per cercarvi una possibilità di senso, diviene segno di speranza, di rigenerazione: la vera arte ci fa guardare il brutto per amare il bello, ci fa guardare il dolore per farci amare la vita, testimoniando la sete di verità e bontà che essa racchiude.
Per concludere, una domanda più «banale». Quale può essere il ruolo dell’arte contemporanea nella missione della Chiesa oggi?
Intercettiamo nella Chiesa il desiderio di inaugurare una nuova era nei suoi rapporti con il mondo delle arti. È vero, come ricordava Paolo VI alla fine del Concilio Vaticano II, che «da lungo tempo la Chiesa ha fatto alleanza» con gli artisti, che hanno contribuito a costruire e decorare i templi cristiani, hanno arricchito di bellezza la liturgia e aiutato a tradurre in esperienza umana e rendere sensibile il messaggio divino. Ma non dobbiamo dimenticare che nella storia del rapporto della Chiesa con le arti ci sono state anche ambiguità e dure tensioni, al punto che per decenni si è parlato di un persistente «divorzio», causato anche dalla difficoltà della Chiesa di comprendere e accettare l’autonomia dell’arte, che giustamente non accetta di fare da semplice cassa di risonanza di parole altrui. C’è ora la volontà di mettere in atto uno stile nuovo, in cui le convergenze plurali siano intessute nella libertà e la porzione di cammino autentico che possiamo fare insieme sia più apprezzata.
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