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Luca Zuccala
Leggi i suoi articoliStrass, acrilico e paillette. Ritagli, fotografie e smalti. C’è tutto (e di tutto) in Mickalene Thomas (Camden, Usa, 1971). Nel suo curriculum, nelle sue opere, nei suoi collage monumentali che sedimentano sulla tela da oltre trent’anni. Ci sono il Dadaismo, la Pop art e l’Harlem Renaissance. Ci sono Manet, Rauschenberg e Wesselmann, ma anche Faith Ringgold, Carrie Mae Weems e Romare Bearden.
In Europa è stata scoperta solo da pochi anni, grazie alla personale all’Orangerie nel 2022 e le apparizioni in galleria tra Londra e Parigi. Negli Stati Uniti invece è una sorta di mito da almeno 15 anni. Come dimostrano la moltitudine di riconoscimenti ed esposizioni che ne hanno celebrato (e ne continuano a sostenere) la carriera. Afroamericana, nata in una famiglia poverissima in New Jersey, la sua ricerca è come i suoi quadri: un pastiche composto da identità queer, orgoglio razziale, giustizia sociale e indagine sul corpo femminile. Tutto calibrato in un assemblage che strizza l’occhio al Kitsch verso un’equilibrata stratificazione glamour e materica.
Le sue opere sono nelle collezioni delle più importanti istituzioni museali americane, dal Brooklyn Museum allo SFMoMA, dal Whitney alla National Gallery di Washington. La sua ultima «performance» è andata in scena nella sua New York, dove vive e lavora, con un’installazione alla storica Fiera della Stampa (International Fine Print Dealers Association), dopo che la sua retrospettiva «All About Love» aveva appena fatto il giro del mondo. Partita dal Broad di Los Angeles nel 2024, ha chiuso i battenti lo scorso 5 maggio a Londra, alla Hayward Gallery.
Cominciamo dall’ultimo progetto per la Fiera della Stampa di New York, «L’espace entre les deux». Una mega installazione di carta con un obiettivo: ribaltare e superare il concetto di fissità della stampa saturandone la flessibilità grazie (anche) alle innovazioni tecnologiche.
Proprio così, perché lavorare con la carta ha possibilità illimitate. Nell’arte, spesso traiamo ispirazione dalla natura e troviamo modi per imitarla: gli alberi, che sono l’origine della carta, esistono nella realtà e hanno tre dimensioni. Quindi perché le creazioni realizzate con la carta non potrebbero replicare quella stessa profondità e dimensionalità? Le stanze che facevano parte dell’installazione sono state ispirate dai salotti degli anni ’70, quelli della mia infanzia. Ho costellato le sale di sculture di pasta di carta (piante, lampade, tappeti, mobili), realizzate utilizzando metodi tradizionali giapponesi, e le ho accompagnate a collage che abitavano tutti i piani dello spazio. Così ho evocato una sensazione immersiva. Sembrava di entrare proprio in uno di quei salotti. L’intenzione era di andare oltre le semplici illusioni e di suggerire un terzo approccio, uno spazio tra la rigorosa duplicazione della vita reale e il riconoscimento statico dell’artificio in gioco.
Collage significa stratificazione di memoria e piani di mondi che si intersecano. Come si conciliano i vari livelli di significato?
La mia tecnica è stratificata e complessa, anche quando utilizzo le mie risorse fotografiche o le immagini d’archivio. Sono costantemente occupata a contemplare modi per giustapporre diversi tipi di materialità, e sono particolarmente affascinata dalle possibilità della stampa, di quanto e di come posso spingermi oltre i confini tradizionali. Il collage mi aiuta a dare fondamento alle mie idee per creare una composizione che sia coesa e costruita su più strati, letterale e figurativa. L’«espace entre les deux» è diventato una specie di collage vivente, creando una nuova conversazione con i pastiche incorniciati e selezionati per essere esposti nell’installazione.
Il collage fu, all’inizio del Novecento, una delle tecniche che innovarono profondamente il linguaggio dell’arte. Oggi il collage è protagonista di una vera e propria rinascita. A che cosa si deve questo sorprendente ritorno?
Per me, il collage è un mezzo affascinante di scoperta ed esplorazione delle mie idee. Per sua natura imita le nozioni complesse e personali di qualsiasi pensiero, fisicamente e metaforicamente. È parte del modo in cui apprendo e disimparo sistemi e mi aiuta a dare senso alla mia composizione e alla narrativa che le gira attorno. Con questa tecnica posso rimuovere e ricostruire strati durante il processo di composizione e combinazione. La sua rinascita può essere connessa ai cambiamenti nelle preferenze sociali e culturali. È intrinsecamente una pratica nostalgica, e c’è fascino in questo. Anche il collage digitale è popolare, ma penso che molte persone abbiano il desiderio di rallentare e sperimentare un approccio più tattile alla creatività.

Mickalene Thomas, «Sleep: Deux femmes noires», 2013. © Mickalene Thomas
Nell’«Olympia» di Manet, un’opera alla quale lei fa riferimento, la sensualità è provocatoriamente esibita, mentre nei suoi dipinti sembra emergere soprattutto il lato glamour del corpo femminile. Oggi sono più provocatori il kitsch e il senso di provvisorietà e rapido consumo, impliciti anche nei riferimenti al mondo della moda, rispetto a un corpo femminile nudo?
Gli artisti possono rendere provocatoria qualsiasi cosa, se lo desiderano, anche involontariamente. Io esploro la forma femminile e nel mio lavoro integro un senso di glamour come modo per avviare nuove narrazioni sulle questioni d’identità, di rappresentazione e di riappropriazione dello sguardo femminile nero. Certe persone potrebbero essere desensibilizzate alle rappresentazioni del corpo femminile nudo, ma non tutti lo sono. Opere che presentano evidenti manifestazioni di kitsch possono aiutare a provocare nuove critiche della nostra complessa e multiforme cultura.
Nel suo lavoro è evidente un richiamo alla Pop Art. Ha un artista pop di riferimento?
Quando studiavo al Pratt Institute a Brooklyn ho scoperto Tom Wesselmann. Ero particolarmente attratta dai suoi grandi «American Nude», dai suoi colori a tinte forti e piatte. Questi elementi erano legati ai modi in cui stavo sperimentando con la frammentazione e il corpo. Amo la natura provocatoria del suo lavoro: ha infuso senza sforzo un senso di desiderio e sensualità agli oggetti quotidiani. Nelle sue rappresentazioni di un’arancia, ad esempio, ha creato una comprensione seduttiva della natura del frutto, di come si relaziona alle parti del corpo. Ci ha ricordato i modi tangibili in cui i nostri corpi possono farci sentire. Mi sforzo di creare metafore simili nel mio lavoro che sembrano familiari ma sfuggenti, difficili da individuare, ma impossibili da dimenticare.
Corpi esibiti, esuberanza cromatica, Pop Art e patine di strass alludono a una forma di «Black Pride»?
Esattamente. La mia arte offre l’opportunità alle donne nere di diventare protagoniste. Gli strass creano un senso di piacere, seduzione e luce. Mi piace essere provocatoria e audace con l’uso del colore perché stabilisce il tono per ciò che sto cercando di comunicare.
Lei è figlia di una modella, Sandra Bush. Negli ultimi vent’anni il rapporto tra arte e moda si è notevolmente intensificato. e le case di moda sono diventate anche finanziatrici dell’arte contemporanea. Ma sul piano estetico quali sono le più evidenti e reciproche influenze?
La moda è diventata una fusione di molti mondi diversi. Numerose case di moda sono diventate incredibilmente di supporto agli artisti sia emergenti che maturi, finanziariamente e creativamente, e il loro sostegno ha aiutato a portare l’arte alla gente. Combinando arte e moda possiamo avviare nuovi dialoghi creativi che celebrano la bellezza e l’eleganza e abbracciano narrazioni femminili complesse. Amo come posso usare la moda per sfidare le rappresentazioni tradizionali della bellezza. Mi permette anche di tradurre il mio lavoro in nuove discipline, come l’arte indossabile. Penso che man mano che si cresce come artisti, si deve essere aperti e disposti a esplorare nuove relazioni affinché il lavoro abbia successo. La propria ricerca deve essere accessibile al più ampio pubblico possibile, altrimenti diventa difficile essere impattanti o capaci di ispirare.
Negli anni Novanta l’artista visiva americana Janine Antoni trattò i temi del femminismo, del desiderio e dello sfruttamento sessuale creando sculture di cioccolato e cosmetici commestibili, quindi utilizzando materiali di consumo. Quali differenze ci sono tra la generazione di artiste femministe di quel periodo e la sua?
Queste artiste hanno costruito le fondamenta per noi con il loro uso di materiali e tecniche inediti per affrontare temi di genere, sessualità e corpo in modi nuovi. Il mio approccio è quello di una donna nera che ama senza scuse altre donne nere. Nel mio lavoro, sfido le rappresentazioni tradizionali di queste donne e celebro la loro forza e bellezza attingendo da un luogo di amore, celebrando le gioie della vita.
Quindi, l’arte può essere ancora un valido strumento di lotta politica?
Assolutamente sì. Come artista devo avere la capacità di interrompere e cambiare radicalmente la narrazione per le generazioni presenti e future. Il mio lavoro riguarda le donne nere che rivendicano il loro spazio. Posso rappresentare tanto la loro femminilità, trasgressività e identità, quanto il loro desiderio e il loro potere. Voglio liberarle dall’emarginazione e dall’oppressione culturale. E renderle così il più visibili possibile.

Mickalene Thomas Headshot. © 2025 Annemarie Lopez
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