Helen Stoilas
Leggi i suoi articoliLa maggior parte di coloro che sentono il nome Kaws pensano immediatamente ai suoi caratteristici personaggi cartoon con le X al posto degli occhi, che sono apparsi in pubblicità di moda e su t-shirt, come sculture gonfiabili fuori misura e come una popolarissima linea di giocattoli da collezione. Il nome Kaws si basa sulla tag dei graffiti usata negli anni Novanta dall’artista Brian Donnelly (Jersey City, 1974), che ha iniziato da adolescente a dipingere con lo spray per le strade del New Jersey e, dopo essersi laureato in illustrazione alla School of Visual Arts di New York, ha lavorato per un periodo in uno studio di animazione. Negli ultimi dieci anni Kaws ha raggiunto la notorietà internazionale e il suo lavoro è stato paragonato a quello di Andy Warhol per il modo in cui sfuma i confini tra cultura pop e arte, tra consumismo e Concettualismo.
Proprio l’Andy Warhol Museum di Pittsburgh ospita fino al 20 gennaio una mostra congiunta che esplora i temi più oscuri della violenza e della morte presenti nelle opere sia di Kaws che di Warhol. Un’altra mostra sui personaggi da lui creati si sposterà dalla Art Gallery of Ontario, che l’ha organizzata, al Crystal Bridges Museum of American Art di Bentonville dal 15 marzo al 28 luglio. Nel frattempo, la galleria newyorkese Skarstedt ha aperto a novembre una nuova sede a Chelsea con «Kaws: Day By Day», una mostra di dipinti conclusasi lo scorso 21 dicembre.
Ma Donnelly è anche un collezionista e una selezione della sua vasta raccolta è esposta nel Drawing Center di New York fino al 19 gennaio. Le 350 opere allestite sono solo una parte delle circa 4mila che Donnelly possiede, di oltre 500 artisti: moderni e contemporanei come Ed Ruscha, Lee Lozano, Willem de Kooning, Raymond Pettibon e Gladys Nilsson, insieme a quelle di celebri graffitisti come Lee Quiñones, Futura 2000 e Rammellzee, e di autodidatti come Martín Ramírez, Henry Darger, Helen Rae e Susan Te Kahurangi King. Ne abbiamo parlato con Kaws.
La mostra presenta molte rivelazioni sorprendenti, con opere di Ed Ruscha accanto a Henry Darger e H.C. Westermann accanto a Willem de Kooning. La sua collezione è davvero eterogenea…
Spero sempre di imbattermi in un’immagine con la mente aperta e di entrare in contatto con gli artisti senza pensare a... «Oh, è un graffito? Oh, questo è un artista di graffiti? È un artista autodidatta? È un artista contemporaneo di serie A, come lo chiamate voi?». Questa è una delle parti più divertenti della mostra: avere Ed Ruscha che si concentra sulle lettere del suo nome accanto a Phase 2 e Lee Quiñones e altri che, per quasi tutta la loro carriera, hanno realizzato opere incentrate sulle lettere o sui nomi.
E perché uno, Ruscha, è considerato un artista, le cui opere si vedono al MoMA, mentre l’altro, le cui opere sono per strada, non lo è?
Speriamo che tutto questo cambi. So che molte delle opere del Drawing Center per alcuni non saranno familiari, ma per altri si tratta di artisti che hanno idolatrato negli ultimi quaranta o cinquant’anni. Si pensi appunto a Lee Quiñones, che durante l’adolescenza dipingeva con lo spray giganteschi vagoni ferroviari da cima a fondo, da un capo all’altro, in condizioni di scarsa illuminazione, sotto costrizione, e a quelle immagini iconiche dei graffiti che fotografi come Henry Chalfant e Martha Cooper hanno documentato così bene. Questo ha davvero influenzato un pubblico globale di giovani, che ora sono maggiorenni e stanno lavorando. Credo che le persone debbano accettare quanto sia stato influente. È bello vederlo accanto al lavoro di altri artisti, come Ana Benaroya, che è giovane, e constatare la sua attenzione per i disegni con pennarelli e inchiostro.
La mostra comprende anche molti quaderni di schizzi di artisti. È una parte importante della sua collezione?
Ho voluto includere questo materiale per mostrare, anche con un artista come Dondi, come l’attenzione ripetitiva alla forma delle lettere e a queste cose abbia funzionato. L’ho messo accanto a Eugene Von Bruenchenhein, noto per i suoi dipinti ma autore di intricati disegni a penna. E hanno le stesse strutture geometriche che si ottengono quando si lascia perdere la scrittura e ci si concentra sulla composizione. A un certo punto, si entra in un altro regno dell’immagine.
Pensa di donare la sua collezione a un’istituzione o di aprire un museo?
Onestamente, non colleziono con l’intento di esporre. L’idea di avere un museo è un po’ opprimente. Voglio creare il mio lavoro.
Com’è stato per lei passare dall’essere conosciuto come street artist all’essere un artista contemporaneo di fama internazionale?
È da più di 25 anni che non faccio nulla per strada e quando lo facevo cose non mi consideravo un artista di strada. Quando faccio opere per una galleria, non mi considero un artista contemporaneo. Spero che per la gente sia arrivato il momento di lasciar perdere questo tipo di etichette.
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