Image

Verifica le date inserite: la data di inizio deve precedere quella di fine

Image

Con «Limits» (2007) Beatrice Zagato stessa prova a illustrare il concetto che per quanto noi cerchiamo di incasellare la creatività entro barriere logiche e definitorie, essa tenderà sempre a superare qualsiasi limite in quanto libera

Image

Con «Limits» (2007) Beatrice Zagato stessa prova a illustrare il concetto che per quanto noi cerchiamo di incasellare la creatività entro barriere logiche e definitorie, essa tenderà sempre a superare qualsiasi limite in quanto libera

L'arte ha un privilegio: può essere oscena

Image

Redazione GDA

Leggi i suoi articoli

L’arte è una delle più grandi espressioni democratiche di qualsiasi ordinamento civile. E arte significa libertà.
La tutela dell’arte è considerata principio fondamentale della nostra Costituzione e addirittura valore primario e supremo dell’ordinamento, da «non poter essere sovvertito o modificato nel suo contenuto essenziale neppure da leggi di revisione costituzionale od altre leggi costituzionali». Anche a livello europeo viene proclamata diritto fondamentale ed inserita nell’ art. 13 della Carta dei diritti Ue. Questo perché l’arte è forse lo strumento più forte dato alle minoranze per esprimere il dissenso, a prescindere (da qui la sua eccezionalità) dalla forma di Governo esistente: essa è e sarà sempre una porta verso il pluralismo.
A patto che sia arte, ovvero, a patto che sia libera.
«L’arte e la scienza [infatti] sono la libertà stessa nella sua forma piú alta, dire che arte e scienza sono libere è come dire che la libertà è libera»: questo è il pensiero del Costituente, che non a caso le dedica all’art. 33 una tutela specifica e separata rispetto alle altre manifestazioni di pensiero. Suoi corollari sono gli artt. 21 e 9 Cost. rispetto ai quali si pone, secondo parte della dottrina, in rapporto di species a genus, o ritagliandosi un’area propria, secondo altra dottrina. Vi sono infatti manifestazioni di pensiero ed espressioni di cultura che non sono arte, ma non è mai vero il contrario. L’ epressione artistica, inoltre, non soggiace al limite del «buon costume», che nel corso del tempo la giurisprudenza ha avvicinato sempre più al concetto di «oscenità» (misurato sul comune sentimento di pudore dell’uomo medio) preferendolo a quello, più ampio, di «morale sociale».
L’arte quindi può essere e «usare dell’osceno come di ogni altro mezzo espressivo, ed anzi esso, proprio nel suo carattere provocatorio, può talora risultare lo scopo essenziale di molta arte, in varie epoche posta in insanabile dissidio col proprio contesto sociale ed ideologico»: ma il carattere di artisticità renderà superflua ogni ulteriore indagine sull'oscenità. Prova ne è l'art. 529 c.p..
Il cosiddetto «privilegio» che le garantisce un «campo d'azione» più ampio rispetto alle altre manifestazioni di pensiero non significa che all’artista è riconosciuto il potere di fare ciò che vuole, bensì che alla sua libertà dovrebbe darsi il massimo espletamento possibile, rispetto e in relazione agli altri diritti e libertà con cui essa inevitabilmente collimerà sul piano pratico, ammettendo, in sede di bilanciamento, che il giudice spinga questi ultimi agli «estremi» (cioè comprimendoli fino al loro nucleo essenziale), ove ciò risulti necessario all’espletamento della libertà dell’arte; facendola, infine, cedere solo di fronte a determinati altri valori, altrettanto supremi e primari, che ne rappresentino un prius logico. Ergo: diritto alla vita; all’integrità psico-fisica; alla pari dignità sociale e onore; alla sicurezza e incolumità pubblica; alla tutela dei minori; all’ordine pubblico.

Quanto detto serve a delimitare il campo del diritto, affinché non invada quello dell’arte, snaturandone l’essenza. È la portata di quella libertà di cui ci parla l’art. 33, così cara al Costituente che ben conosceva gli effetti di un'«arte» di Stato. Tale libertà fu strozzata, allora, attraverso un eccesso di disciplina con cui il legislatore la fece degenerare in propaganda. Ma anche una libertà priva completamente di regolamentazione che garantisca attuazione alla norma di principio con cui la si proclami, sfocerebbe all’opposto in pura anarchia, travolgendola. Ed è quanto oggi avviene nel nostro ordinamento, accrescendo l’incertezza che regna sovrana a livello europeo e internazionale nel mercato dell’arte.

Allo stato attuale della nostra legislazione non è stata ancora dettata alcuna disciplina specifica in materia, con conseguente assenza di strumenti capaci a dare chiarezza e certezza a tutti coloro, giudici compresi, che si trovino ad avere a che fare con l’arte. Da ciò si lasciano immaginare i potenziali (per non voler essere negativi!) abusi che ne possano scaturire e, di fronte alla considerazione che proprio oggi in un mondo inginocchiato dalla crisi economica quello dell’arte è uno dei mercati che muove più denaro a livello globale, ci si chiede, ironicamente, come sia possibile.

L’arte ha bisogno che venga costruita una tutela giuridica attorno ad essa, informata al principio contenuto negli artt. 33 Cost. e 13 Carta dei diritti Ue, e volta a disciplinare sia il momento, per cosìdire, iniziale dell’espressione artistica, legato cioè a quel «facere» creativo che sfocia in un bene (materiale o immateriale), divenendo opera d’arte (aspetto «ontologico o interno» del diritto dell’arte); sia il momento successivo alla sua produzione, che attiene invece alla sua tracciabilità, prova e commercio, strettamente legato al profilo economico dell’arte (aspetto «esterno» del diritto dell’arte). L’uno senza l’altro comportano il venir meno della tutela, essendo inscindibilmente connessi anche sul piano pratico (e ciò è ancor più vero oggi, se si pensa alla tendenza effimera, concettuale e immateriale di certa arte contemporanea, che per dar prova della propria esistenza, e diventare quindi tutelabile, necessita di strumenti che ne garantiscano l’avvenuta realizzazione e autenticità).
Risvolti giuridici relativi al primo aspetto summenzionato possono essere sintetizzati con un pensiero di Pasolini, che intervistato nel ’73 dal «Corriere della Sera», si fa interprete di un’opinione condivisa da molti e denuncia l’ordinamento italiano di porre l’artista nella tragica altrenativa di relizzare un’opera d’arte o finire in galera (ne fanno prova le sue innumerevoli chiamate a giudizio). A ciascuno di noi, infatti, viene garantito dalla Costituzione un diritto, fondamentale e supremo, però una volta che ci accingiamo a metterlo in pratica, possiamo non solo vedercene negare la tutela, ma, con quella stessa condotta attraverso cui credavamo estrinsecarlo, venire incriminati per la commissione di un reato. Si aggiunga che l’incerta tutela riconosciuta all’ opera d’arte, avvenga quasi sempre attraverso un giudizio ex opere operato, ossia a «prodotto ultimato» senza tener conto invece dell’attività creativa che ha portato a quel risultato. Anche questa è una violazione della norma di principio, in quanto a ben vedere solo la tutela del facere artistico in fieri può portare a una effettiva tutela della libertà dell’arte (ad esempio in un’opera filmica o performance). Bisognerebbe allora fare riferimento a delle linee guida capaci di rilevare la serietà intrinseca, professionalità e apprezzabilità del livello tecnico dell’attività artistica, facendo sì che la sua tutela venga svincolata rispetto alla valutazione finale sull’opera, potendo anche, quest’ultima, non risultare un capolavoro.

Quanto al secondo aspetto, si rileva che in assenza di riferimenti normativi è la prassi a dettare le «regole del gioco», con esiti difficilmente prevedibili e non sempre felici. Il mercato dell’arte si basa sul fatto che il valore di un’opera è determinato dalla sua quotazione sul mercato, rilevabile in primis dal prezzo di vendita nelle case d’asta internazionali. Può oscillare nel tempo, a seconda dell’ offerta e richiesta di quel determinato artista (per questo si dice che è lo stesso mercato a stabilirlo).
In tale ambito si inserisce l’attività di promozione svolta dai vari galleristi, musei, fondazioni, archivi ecc., che contribuiscono a incrementare o mantenere la notorietà di un artista: si potrebbe dire che essi intuiscano, indirizzandolo, l’«appetito estetico» della collettività.
Quello che sta avvenendo ora, e in modo sempre più sentito, è che nessuno di questi operatori acconsentirebbe a vendere, muovere, esporre, comprare un’opera d’arte se non provvista del suo certificato di autentica: senza alcuna legge che lo stabilisca e regolamenti, è diventato conditio sine qua non a garanzia del valore dell’opera, al punto che di fatto tale valore dipenda più dal pezzo di autentica che dal suo pregio artistico. Quindi, per garantire sicurezza, si è costruito un meccanismo che ha finito col negare il suo scopo e creare ancora più incertezza, perché un’expertise è sì capace di creare una situazione di certezza, ma solo fattuale e provvisoria, essendo spesso più vincolata alla persona che la emetta che non all’opera, e la sua opinione sarà confutabile con altra di segno opposto.
Origine e causa di entrambe le osservazioni è il fatto che il legislatore non sia ancora intervenuto.
Ad oggi, in Italia:
I_non esistono norme che stabiliscano quali requisiti debba avere un’autentica di opera d’arte.
Prima la L. 1062/1971 (cosiddetta «legge Pieraccini», inglobata nel Codice dei Beni culturali) prevedeva un obbligo del venditore di consegnare al compratore un attestato di autenticità; ora l’art. 64 del Codice dei Beni culturali dispone un obbligo di consegna della documentazione solo qualora disponibile, ma «al di là della differenza terminologica delle due discipline, la legge non specifica esattamente quali requisiti formali la certificazione debba soddisfare». Si domanda allora al legislatore: senza criteri da rispettare nella redazione di un certificato di autentica, considerato l’enorme impatto economico determinato dalle autentiche nel mercato dell’arte, come può garantire la tutela, delle opere d’arte e di chi opera nell’arte? L’affidabilità del documento e della persona/ente che lo emetta?

Chiaro è che individuare ex ante i requisiti formali di verifica riferiti a un fenomeno che usa qualsiasi mezzo e forma per manifestarsi, non sia impresa facile: in ciò probablimente risiede la difficoltà del legislatore, unita forse al timore di dettare una disciplina risultante troppo rigida o immediatamente obsoleta, inconciliabile con la libertà artistica. L’arte opera in territori di confine, fatti di casi limite. Ma invece di rappresentare il tallone d’Achille di una sua possibile regolamentazione, tale caratteristica ne garantisce anzi la coerenza con l’ordinamento giuridico. Non si chiede, infatti, al legislatore di dettare delle regole che, ove seguite pedissequamente, approdino sempre a un giudizio di verità sull’opera d’arte, quanto piuttosto di scegliere dei criteri idonei a rivelare il grado di affidabilità del documento e della persona che lo emetta, secondo una valutazione di probabilità; degli indici cui l’esperto debba attenersi nel rilasciare la sua expertise al fine di rendere trasparente a chiunque la sua preparazione e valutazione. In caso di lite saranno sempre il giudice o arbitro aditi a decidere sul caso concreto, ma in questo modo non dovranno brancolare nel buio per pervenire a una decisione né essere loro stessi esperti d’arte, potendo effettuare una valutazione di elementi costanti; confrontandoli eventualmente con i corrispettivi di altra expertise rilasciata sulla stessa opera; disponendo, se opportuno, perizia per chiarire quegli stessi punti; e stabilendo infine, sulla base di essi (allora sì!), cosa ritenere piú rilevante ponendolo a fondamento della propria decisione.
Utili in tal senso sono i resoconti dell’Authentication in Art Congress che nel 2014 riunisce all’Aia esperti da tutto il mondo proprio «[...] for the purpose of stablishing standard requirements in the market for reports of this nature [...] facilitate the market’s good faith [...], enable courts and judicial tribunals to assess the admissibility of expert reports under the applicable rules of evidence and law [...]».

Al punto 3 si descrivono 9 criteria for expert opinions mettendo in luce le tecnologie che possono essere applicate a un’opera d’arte e specificando che «if the witness’s methodology is based solely on observations, his or her methods of analysis may be deemed reliable only if the observations are based on relevant, extensive and specialized experience. Typically, experience-based observations without further explanation or preparation (such as recognition of the observation-only technique by others in the same field) are not generally acceptable». Di modo che «conclusion based on the standard criteria – especially those which apply different acceptable, reliable methodologies but reach diametrically opposed opinions about the same painting – are inherently credible. With the same underlying structure, these differing opinions of observationalist vis-à-vis observationalist, scientist vis-à-vis scientist or observationalist vis-à-vis scientist can easily and effectively be compared so that stakeholders can best determine authenticity».
Il legislatore potrebbe ad esempio iniziare con l’identificare e analizzare esaustivamente tutti i possibili strumenti tecnico-scientifici messi oggi a disposizione dalla ricerca tecnologica per l’analisi di un’opera d’arte. Capire con che margine di esattezza ciascuno sia affidabile: quanto più alto sarà tale margine, tanto più il legislatore dovrebbe prediligere il ricorso a tale strumento.
In secondo luogo, l’esperto che non lo utilizzi o utilizzato, decida discostarsene, dovrebbe spiegare le ragioni della sua scelta, garantendo cosí sostanza e fondamento alla propria valutazione: pur restando un’ opinione essa verrebbe ancorata a dei criteri, e quindi risulterebbe più facilmente comprensibile, verificabile e confrontabile con altra data. Ove tale opinio non fosse basata su risultanze tecniche il legislatore potrebbe considerare rilevante il numero di pubblicazioni fatte da quel determinato esperto su quel determinato artista, arginando i casi denunciati nella prassi, di chi si autoproclami esperto di riferimento di un artista su cui poco è stato scritto, semplicemente acquisendone l’archivio, pubblicando un libro e iniziando a catalogarne le opere.

II_chi la possa rilasciare e che peso attribuire al suo giudizio, tenuto anche conto che non esiste alcun albo professionale di periti esperti d’arte né ente chiamato a controllare la loro preparazione;
L’art. 64 del Codice dei Beni Culturali, unica norma a disporre sull’«autenticità» e «provenienza» delle opere d’arte, non dà alcuna indicazione su chi sia legittimato a rilasciare tali certificati, lasciando senza risposta l’inquietante quesito se possano farlo in via esclusiva i soggetti indicati dall’art. 20 e 23 LdA20, facendo rientrare il diritto di autentica nel diritto morale d’autore (così Trib. Milano, sez. I, 1 lug. 2004), oppure chiunque in forza degli artt. 2222, 2230 c.c. e 21 Cost. (così Trib. Milano, sez. Spec. P.I., 13 dic. 2004). Sembra logico appoggiare la seconda ipotesi rischiando altrimenti di snaturare la ratio stessa dell’ art. 20 LdA, giustificativa dell’attribuzione del diritto contenuto nell’art. 23 LdA. Infatti, nemmeno il diritto riconosciuto all’autore ancora in vita ex art. 20 LdA sembra essere esclusivo, dal momento che, in sede penale, la sua testimonianza sull’effettivo riconoscimento della paternità dell’opera non avrà più peso di quella di qualsiasi altro testimone chiamato in giudizio ex art. 9 L. 1062/1971, che rimanda alla discrezionalità del giudice sia decidere se utilizzare la perizia artistica, sia se disporre la testimonianza dell’autore. A fortiori non avrebbe allora senso avvalorare un’ attribuzione ope legis della qualitas di esperto d’arte in capo agli eredi, tenuto anche presente che spetta loro il cosiddetto diritto di seguito e altri interessi economici sulle opere del de cuius.

È sconcertante comunque realizzare che a prescindere da quale interpetazione si decida appoggiare, entrambe lascino aperta la possibilità di rilasciare expertise a chiunque: anche a chi non sia effettivamente un esperto. Ed è quanto si dice avvenga spesso nella pratica, spiegando forse il perché in caso di lite il più delle volte si preferisca non coinvolgere i periti o comporre la lite extragiudizialmente, svuotando di utilità lo strumento della perizia in ambito artistico, generando essa più confusione che chiarezza.
Affermare che l’atto di autenticazione è un’attività tecnica (expertise) e non l’estrinsecazione del diritto d’autore, implica collocarla tra le manifestazioni di pensiero ex art. 21 Cost. qualificandola come «opinione».

Questa considerazione non solo ammette, come detto, che potenzialmente chiunque possa rilasciare expertise (fermo restando il diritto di rivendicare o disconoscere la paternità dell’opera ex art. 23 LdA e 20 LdA), ma che in sede giudiziale non si possa punire colui che l’ ha rilasciata se non per dolo o colpa grave. Inoltre non si vede su quali basi il giudice possa considerare tale opinione più ragionevole di un’altra data, e preferirla in sede decisionale, non essendo l’opinione «ex se» strumento di rilievo oggettivo idoneo a rimuovere la situazione di incertezza.
Allo stato della nostra legislazione tale rilievo non può che risultare esatto, in quanto seguendo il dettato normativo non si potrebbe pervenire ad altra soluzione: è inconfutabile che l’atto di autentica sia giuridicamente sussumibile tra le opinioni, e dunque libere e incoercibili.
Altrettanto vera però è la progressiva tendenza dell’arte a trasformarsi «into an art market and now an art industry» in cui l’autentica opera come legge (a volte senza ragionevoli criteri). Per cui se oggi viene richiesto al critico di esporre sinteticamente le ragioni per le quali non ritenga l’opera autografa e considerato ciò «elemento più che sufficiente per porlo al riparo da qualsiasi coercizione», l’errore non è imputabile a lui, ma all’inerzia o incapacità del legislatore di ancorare la sua opinione a dei parametri legali cui fare riferimento per valutare l’auctoritas di essa.

Sul profilo processuale ciò porta a domandarsi se il legislatore si sia effettivamente interrogato sull’eventuale bontà di un albo professionale di periti esperti d’arte, facendo sperare che l’assenza attuale di tale istituto sia frutto di una sua scelta e non dell’impossibilità logica di poterlo creare fintantoché manchino i parametri auspicati sopra. Certo è che la sua istituzione prevista dalla legge Pieraccini nel 1971 non ha mai trovato attuazione e oggi non vi è alcun obbligo in Italia per il perito d’arte di iscriversi a un albo professionale. Solo la Camera di Commercio ha istituito un proprio elenco di esperti d’arte, i cui requisiti d’accesso sono o la laurea tecnica in materia o lo svolgimento della professione di antiquario per tre anni, e sarà la Camera stessa competente a valutare la documentazione presentata, o, se insufficiente, esaminare l’interessato. In ogni caso tale iscrizione non è abilitativa né obbligatoria, ma ha solo fine di pubblicità conoscitiva. Ancora una volta allora, chiunque può potenzialmente autoqualificarsi critico ufficiale di un determinato artista.

III_non esistono criteri economici o scaglioni cui fare riferimento per calcolare il costo di un’expertise; né sanzioni per chi, rilasciandola o meno, arrechi un danno economico al proprietario dell’opera (salvo il dolo o la colpa grave).
Ci sarebbero ancora tanti aspiranti esperti a voler rilasciare autentiche, se esse diventassero per legge gratuite o non così onerose come nella pratica si denuncia siano? E se l’esperto non venisse pagato in base alla singola autentica bensì mensilmente o forfettariamente, per il suo lavoro prestato nell’arco di un determinato periodo?

IV_anche le norme sulle Fondazioni o Archivi di artisti sono pressoché inesistenti. La dicitura di «ufficialità» che spesso accompagna il catalogo ragionato da loro redatto risulta piú una autoproclamazione de facto che de iure, non esistendo norma alcuna che attribuisca loro un diritto in via esclusiva sulla facoltà di autentica. La creazione di un catalogo che comprenda tutte le opere di un artista è infatti basata sul giudizio di autografia degli organizzatori dell’archivio e trattandosi di un’opinione «quando gli "archivi" pretendono di avere la parola definitiva sul corpus ufficiale delle opere dell’artista archiviato, usurpano una vera e propria funzione che la legge vigente non riconosce nemmeno all’artista vivente e, quindi, che tantomento può spettare a chi, eventualmente per diritto ereditario, si sia a lui sostituito nella titolaritá del c.d. diritto morale d’autore». Nonostante ciò, nel silenzio della legge, gli archivi detengono di fatto il potere di decidere le sorti di un’opera d’arte, con statuizioni oltretutto inappellabili. Ad accrescere il paradosso, si aggiunga che, mancando un diritto di esclusiva, possono coesistere più archivi «ufficiali» del medesimo artista. Per questo una disciplina sui requisiti, costituzione, funzionamento, controllo degli Archivi congiunta a quella di modalità di rilascio delle autentiche, agevolerebbe in primis proprio gli Archivi stessi, o meglio quelli tra essi che operano in maniera seria nel mercato dell’arte, snellendo le continue liti giudiziarie dove li si accusa di abusi legati a interessi economici nella valutazione delle opere d’arte.

L’astensionismo del legislatore diventa ancor più incomprensibile se si pensa invece all’accurato intervento statale previsto nella disciplina di quei beni privati che egli stesso reputi di «interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico particolarmente importante» o «eccezionale» (art. 10/3 CBC), che legittima fortissime interferenze e limitazioni al godimento della proprietà privata. Rispetto a tale normativa, sorge naturale la curiosità di conoscere quali siano gli «indirizzi di carattere generale stabiliti dal Ministero medesimo al fine di assicurare uniformità di valutazione» sul bene, per stabilire quando esso risulti di interesse culturale per lo Stato (art. 12 CBC).
Ci si domanda: con che criteri lo Stato riesce a decidere quando un’opera d’arte risulti talmente importante da passare a essere bene culturale, se non ha gli strumenti per decidere, a monte, quando un’opera sia arte e quale sia il suo valore effettivo (in base a un giudizio di certezza o quantomeno probabilità)?
Se esistono tali criteri, e sono improntati a valori di reale chiarezza, trasparenza, uniformità e verificabilità, perché non valutare se potrebbero essere applicabili anche alla «semplice» opera d’arte?
Per come stanno oggi le cose, lo Stato, ad esempio, non detta norme di tutela del proprietario, che acquistata un’opera d’arte realizzata da più di 50 anni da artista defunto, se ne veda svuotare il valore perché sprovvisto di garanzia su di essa. Ma se al contrario egli sia così fortunato da non incorrere in contestazioni sul valore e autenticità dell’opera, che addirittura viene dichiarata bene culturale, gli si applica una disciplina con cui si autorizza lo Stato alla supervisione di qualsiasi operazione egli compia sul bene. Nonostante ciò trovi giustificazione, anche a livello europeo (art. 167 TFUE), dall’esigenza di tutelare il nostro immenso patrimonio culturale, non può non rilevare che «quadri di autori che potrebbero essere venduti a cifre assolutamente di rilievo, difficilmente escono dall’Italia e dunque le loro quotazioni sul mercato italiano risultano strozzate rispetto a quelle estere» a scapito del proprietario. Ecco perché una maggiore chiarezza sui criteri di discernimento utilizzati dalle Soprintendenze sembra essere il minimo richiesto e dovuto.

3. Questi sono gli aspetti cui il legislatore non ha saputo ancora dare risposta, forse per il fatto che l’oggetto stesso da disciplinare sfugge a qualsiasi possibilità classificatoria. Ma ciò non può rappresentare un limite per costruire una tutela giuridica, dovendo casomai rappresentarne il punto di partenza.

L’arte spinge alla riflessione, alla creazione, alla trasgressione, ed è già sufficiente; forse null’altro che questo è l’arte: uno stimolo, un’idea, un ideale. E il perseguirlo è la sua funzione. D’altronde, credere di essere finalmente riusciti a concettualizzarla vorrebbe dire non amarla, né averla capita, sarebbe come avere la pretesa di poter spiegare che cosa sia la fede e che cosa voglia dire credere. Ma così come si possono ricavare dei «dati comuni» dal comportamento di un gruppo di fedeli praticanti, e partire da questi dati per cercare di regolare e disciplinare l’aspetto esteriore di tale comportamento, nel momento in cui esso interagisca con gli altri principi dell’ordinamento, allo stesso modo si può fare con l’arte.
Ed è questo che si chiede al diritto.
In un dibattito sulla libertà dell’arte tenutosi a Bolzano nel 2006 a seguito dell’incriminazione ex art. 292 c.p dell’opera «Confine immaginato» di Goldiechiari, alcuni ipotizzarono di considerare il museo quale zona franca, in cui non ci sia la legge dello Stato a comandare, dando così spazio incondizionato alla libertà dell’arte. Come si è giustamente obiettato in quell’occasione però «la libertà dell’arte le deriva paradossalmente dai limiti che le sono imposti. L’arte sarà sempre un tentativo di andare oltre, di superare leggi e politica [...], la creatività potrà esprimersi al meglio solo cercando di avversare i tentativi di bloccare questa ricerca».
La creazione artistica a ben vedere non è altro che una risposta a dei limiti, a dei confini soffocanti. Quindi, alla domanda provocatoria posta in quell’occasione da un politico, su come considearare arte la fotografia del cancello di Auschwitz se sopra capeggiasse l’aggettivo «bello», si portano ad esempio le tele di Zoran Music che, reduce dai campi di Dachau, disegna i cadaveri del Lager per non farsi sfuggire, come egli stesso scrive, quella «tragica bellezza, [...] la tragica eleganza di quegli esili corpi» accatastati l’uno sull’altro come un mucchio di bestie divorate dalla morte. O le parole del Nobel Imre Kertesz secondo cui «non esiste assurdità che non possa essere vissuta con naturalezza e sul mio cammino, lo so fin d’ora, la felicità mi aspetta come una trappola inevitabile. Perché persino là, accanto ai camini, nell’intervallo tra i tormenti c’era qualcosa che assomigliava alla felicità. Tutti mi chiedono sempre dei mali, degli “orrori”: sebbene per me, forse, proprio questa sia l’esperienza più memorabile. Sì, è di questo, della felicità dei campi di concentramento che dovrei parlare loro, la prossima volta che me lo chiederanno». E la stessa Etty Hillesum, morta proprio lì ad Auschwitz giovanissima, ci impone di rispondere a questo interrogativo con un sorriso, dal momento che quell’immagine, come tutti i suoi scritti, così infinitamente dolci e atroci insieme, altro non sono che un messaggio d’amore senza limiti, amore per l’essere umano in quanto tale, che ci porta a poter dire «ti amo, anche te che non conoscevo, o che non conoscerò mai, perché sei come me, perché sei uomo».
Per cui che l’artista continui a fare la sua arte, e il giurista inizi finalmente a trovare delle soluzioni ai problemi che derivano da essa, solo non dimenticando che quando ci si relaziona con l’arte deve essere eliminato dalla propria mente qualsiasi preconcetto, qualsiasi pregiudizio, qualsiasi istinto di concettualizzazione e di ragionare per schemi; prima di dare una risposta.
Henri Matisse disse: «L’opera d’arte è un terreno pericoloso dove è facile smarrirsi, ma se si è armati di energia e curiosità è possibile ‘conciliare l’inconciliabile’: questo è il ruolo dell’artista»; e trattandosi di arte, forse vale anche per il giurista.

Beatrice Zagato
Avvocato dell’Ordine degli Avvocati di Barcellona

Con «Limits» (2007) Beatrice Zagato stessa prova a illustrare il concetto che per quanto noi cerchiamo di incasellare la creatività entro barriere logiche e definitorie, essa tenderà sempre a superare qualsiasi limite in quanto libera

Redazione GDA, 10 settembre 2015 | © Riproduzione riservata

Altri articoli dell'autore

L’Associazione archeologi del Pubblico Impiego (Api-MiBact) ha inviato una nota al Ministero della Cultura e a quello della Funzione Pubblica, nonché ai membri delle Commissioni cultura di Camera e Senato, per esprimere il proprio dissenso per il bando per 75 posti nell’area dell’elevate professionalità (Ep), le cui domande di partecipazione vanno presentate entro il 26 giugno

Il premio Nobel e il direttore del Museo Egizio si sono incontrati per parlare di musei e romanzi: «Sono simili: sono i “luoghi” in cui avviene l’interpretazione del significato della nostra vita, nei quali riflettere su sé stessi»

Anche quest’anno Tag Art Night, la Notte delle Arti Contemporanee, propone un palinsesto di mostre diffuse sul territorio cittadino

Rimodulate le competenze e modificato la struttura organizzativa: dal Segretariato generale al modello dipartimentale

L'arte ha un privilegio: può essere oscena | Redazione GDA

L'arte ha un privilegio: può essere oscena | Redazione GDA