Una veduta della mostra di Dan Halter da Osart Gallery

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Una veduta della mostra di Dan Halter da Osart Gallery

L’Africa di Dan Halter nella Osart Gallery

Nel corpus di lavori realizzato per la personale milanese, l’artista di origini svizzere nato in Zimbabwe intreccia i temi del passato coloniale e della crisi climatica con riflessioni, tecniche e linguaggi ispirati a scenari di un futuro alternativo

Nato in Zimbabwe nel 1977, da genitori svizzeri, Dan Halter vive e lavora in Sudafrica, a Città del Capo, uno dei luoghi più iniqui del pianeta, dove si protraggono gli strascichi di ingiustizie e diseguaglianze sociali frutto dei decenni di apartheid che il Paese ha attraversato. Gli effetti della politica di segregazione razziale, istituita da governi di etnia bianca, che dal 1948 al 1994 volevano i diritti politici e il benessere economico come esclusiva riservata alla popolazione bianca, sono accompagnati da un’ancora più lunga storia di appropriazione territoriale e depredazione di ricchezze effettuate dai coloni ai danni della popolazione locale. Una questione ancora attuale, poiché tali proprietà sono state trasmesse per successione di padre in figlio, di generazione in generazione. Ecco i temi che indaga il nuovo corpus di opere realizzato da Halter per la sua mostra personale alla Osart Gallery di Milano, intitolata «The map is not the territory», visibile fino al 2 agosto. Già nel titolo dell’esposizione (la mappa non è il territorio) si legge la critica alle dinamiche colonialiste e capitaliste da cui derivano i confini, molto spesso arbitrari, e che non rispecchiano la storia, i costumi, le lingue, i diritti e le tradizioni dei popoli di determinate aree geografiche. Alle medesime dinamiche è legato anche l’eccessivo sfruttamento delle risorse naturali, all’origine di una crisi climatica senza precedenti, i cui effetti potrebbero mettere a rischio la sopravvivenza dell’intero genere umano. 

«Monopoly Poverty and Progress» di Dan Halter

«Fast Track Land Reform» di Dan Halter

Queste tensioni si rispecchiano, per esempio, in opere come «Monopoly Poverty and Progress» (2024), una stampa su carta intrecciata a mano che riproduce il tabellone del celebre gioco da tavola, mettendo però al posto delle vie alcune delle più importanti capitali del mondo: un grande villaggio globale dove pochi potenti governi tengono in mano le sorti di miliardi di persone. L’effetto poco nitido dell’immagine sul tessuto dà l’idea di come le dinamiche alle spalle degli equilibri geopolitici siano opache e poco trasparenti e con esse le logiche di distribuzione della ricchezza e degli effetti del progresso. «Fast Track Land Reform» (2024) riproduce stampata e ricamata su un tessuto bianco la scritta colorata «I had a farm in Africa» (Avevo una fattoria in Africa). L’opera, fatta di trame, intrecci e messaggi cifrati, si ispira a una frase di Mark Twain (1835-1910), il più noto scrittore statunitense della sua epoca, severo e ironico cronista della crudeltà umana, contrario alla pena di morte e allo schiavismo. «Comprate terreni. Non ne fabbricano più», era l’avvertimento di Twain sulla limitata disponibilità di terra sul pianeta, già in gran parte privatizzata e dunque fuori da ogni disponibilità. Il titolo dell’opera scelto da Halter cita invece il nome del programma politico messo in atto per sottrarre la terra ai ricchi agricoltori bianchi e ridistribuirla alla popolazione nera dello Zimbabwe, a reddito medio e basso, un programma che ha portato le milizie del partito, spesso guidate dai veterani della guerra di liberazione dello Zimbabwe, a compiere atti di violenza contro proprietari e lavoratori agricoli e a occuparne le fattorie. 

«Pale Blue Dot» di Dan Halter

«Machiavellian DNA» di Dan Halter

Alla fragilità e alla cura del pianeta guarda invece l’opera «The Pale Blue Dot», che con la medesima tecnica degli altri lavori riproduce «Il tenue puntino blu», ovvero la Terra fotografata nel 1990 dalla sonda Voyager 1, a sei miliardi di chilometri di distanza, la prima foto scattata dai confini del sistema solare, capace di mostrare quanto minuscola e marginale sia il nostro pianeta nella vastità del cosmo e, di conseguenza, tutte le forme di vita che su esso si succedono e si sono succedute nelle varie ere geologiche. Tutto è transitorio, cucito e tenuto insieme da forze occulte, siano esse quelle fisiche che plasmano la crosta terrestre, o quelle politiche che ne determinano confini provvisori, come ricorda «Rifugiato Mappa del Mondo» (2019), planisfero realizzato ritagliando e assemblando i borsoni in plastica prodotti in Cina (materiale prediletto dall’artista) trasformati dai migranti in valige di fortuna in cui stipare tutti i propri pochi beni, la propria storia e le proprie radici, prima di errare per il mondo con il miraggio di una vita dignitosa che il caso, l’essere nato al momento sbagliato nel posto sbagliato, ha loro negato. Quella di Halter è un’arte che coniuga l’approccio concettuale tipico di molta arte contemporanea occidentale all’artigianalità e ai linguaggi della tradizione africana, ben visibile, per esempio, in «Macchiavellian DNA» (2024), che si nutre dell’equilibrio e della tensione tra l’intreccio e lo sfilacciamento della forma. Un’arte ibrida capace di rielaborare il passato per tracciare nuove strade verso futuri alternativi. 

Una veduta della mostra di Dan Halter da Osart Gallery a Milano

Jenny Dogliani, 28 giugno 2024 | © Riproduzione riservata

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L’Africa di Dan Halter nella Osart Gallery | Jenny Dogliani

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