Con le sue 84 sculture realizzate tra il 1982 e oggi (oltre a un dipinto del 1978 quando, appena uscito dall’Accademia di Brera, ancora non aveva realizzato che la sua vera vocazione fosse la scultura), la retrospettiva di Giuseppe Bergomi (Brescia, 1953) occupa due luoghi identitari della città, diffusa com’è tra i chiostri di San Salvatore e di Santa Maria in Solario, nel Museo di Santa Giulia, e gli spazi cinquecenteschi del Grande Miglio, nel Castello sul Colle Cidneo.
La mostra «Giuseppe Bergomi. Sculture 1982/2024» (dal 12 luglio al primo dicembre), curata da Fondazione Brescia Musei, è la seconda tappa del progetto, avviato la scorsa estate con Davide Rivalta, che si propone di fare del Castello il luogo della scultura, presto arricchito anche da un itinerario di opere di Bruno Romeda (lo scultore bresciano scomparso nel 2017 che, designando come propria erede la Fondazione Brescia Musei, ha reso possibile questa mostra e quelle future) e del compagno Robert Courtright.
In Santa Giulia, invece, la mostra di Bergomi si riconnette al progetto «Palcoscenici archeologici», che ha presentato nel Corridoio Unesco i lavori di Francesco Vezzoli, Emilio Isgrò e Fabrizio Plessi. All’inizio pittore, si diceva, Giuseppe Bergomi, che esordì nel 1978 alla Galleria dell’Incisione di Brescia proprio con una mostra di dipinti, uno dei quali è quello esposto qui. Il punto di svolta si manifestò nel 1980-81 al Centre Pompidou di Parigi, quando vide la storica mostra di Jean Clair «Les Réalismes 1919-1939», con le sculture di Arturo Martini, Marino Marini e altri maestri di quegli anni. Un imprinting che, pur nella specificità del suo linguaggio, tuttora si individua nelle sue sculture, le prime delle quali, ancora una volta, andarono in scena, nel 1982, alla Galleria dell’Incisione.
Al centro del suo universo creativo, la figura femminile, spesso incarnata dalla moglie Alma e dalle figlie Valentina e Ilaria, da lui ritratte dapprima con la terracotta policroma, poi, negli anni ’80 e nei primi anni ’90, con la terracotta al naturale, sulla scorta della statuaria etrusca. Di questa stagione sono esposte «Bagnante addormentata», «Grande nudo di adolescente» (1991 entrambe) e alcuni ritratti delle figlie, seguiti, nel nuovo millennio, dalle opere ora in bronzo, spesso policromo, come il tenero «Valentina accovacciata» (2004), «Alma in poltrona déco» (2009), i busti di Ilaria con diversi cappelli o l’«Autoritratto» (2004), oltre a «Ellisse», qui posta in dialogo con le architetture del monastero. Non mancano, in anni recenti, le opere pubbliche, come «Uomini, delfini, parallelepipedi» per l’acquario di Nagoya in Giappone; il monumento a «Cristina Trivulzio di Belgiojoso» a Milano e quello alle vittime del Covid nel cimitero Vantiniano di Brescia. Da ultimo, «Africa con violoncello», esposta in Biennale a Venezia nel 2011, e l’inedito «Colazione a letto» (2024): tre generazioni unite in un affettuoso gruppo di famiglia.