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La mappa che scappa

Luana De Micco

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Parigi. Le opere di Mona Hatoum mettono in guardia contro le insidie del quotidiano, parlano del dolore dello sradicamento, dell’orrore e della meraviglia, della guerra e di intimità e disegnano la mappa di un mondo con i confini labili. Dal 24 giugno al 28 novembre il Centre Pompidou dedica una vasta retrospettiva all’artista di origini palestinesi, nata a Beirut nel 1952, ma che vive a Londra da molti anni, da quando la guerra civile in Libano l’ha costretta all’esilio. La mostra ne ripercorre la produzione dalle prime performance degli anni Ottanta, intrise di provocazioni e tensioni politiche, alle installazioni successive dove elementi organici si mescolano a utensili della vita quotidiana. Non mancano opere ormai celebri, che sono diventate icone, come «Measures of Distance», «Over my Dead Body», «Socle du Monde», «Corps étranger», «Home» o «Present Tense». La mostra si trasferirà alla Tate Modern di Londra dal 27 aprile al 21 agosto 2016, e, sempre nel prossimo anno, raggiungerà il Kiasma di Helsinki dal 7 ottobre al 26 febbraio 2017.
Mona Hatoum, che cosa pensa della «fedeltà» che il Pompidou dimostra da tanti anni al suo lavoro?
Ricevere un tale sostegno da un museo è fantastico. Nel 1994 ospitò la mia prima personale in un museo. L’anno seguente sono stata selezionata per il Turner Prize a Londra. E tutto questo grazie alla curatrice Christine Van Assche che era venuta a vedere il mio lavoro al Western Front Art Centre di Vancouver. Mi propose allora di creare un’installazione video per il Pompidou. Presentai «Corps étranger», che era una sorta di viaggio nel corpo. L’opera fu poi acquistata dal museo e mi chiesero di fare una personale. La esposi per la prima volta insieme ad altre due grandi installazioni, «Light Sentence» e «The Light at the End». Era già una mostra importante. Ma questa nuova mostra, della stessa curatrice, è un’ampia restrospettiva su tutto il mio lavoro, con più di cento opere.
Che cosa ha provato guardandosi indietro nelle fasi di preparazione della mostra?
Pensando alle mie prime performance degli anni Ottanta, mi stupisco di quanto sia stata audace. All’epoca era il medium giusto per me e l’ho riscoperto di recente. Ma quelle opere contenevano elementi narrativi espliciti, «sparavano» messaggi che miravano direttamente alla testa delle persone. È un tipo di approccio che non condivido più. Ora preferisco articolare le mie idee in maniera più sofisticata, attraverso le qualità astratte e formali dell’opera. Riguardo ad alcune delle mie installazioni, che mi emozionano ancora a guardarle, talvolta mi chiedo perché non ho sviluppato maggiormente certi concetti. Provo le stesse sensazioni rispetto ad alcune opere su carta degli anni Settanta, che avevo completamente dimenticato, di quando ero ancora una studentessa e attraversavo una fase minimalista. Mi è piaciuto riscoprirle e sono felice di poterle esporre ora per la prima volta accanto ad altri lavori.
Per il Centre Pompidou ha realizzato «Map (clear)». Che cosa ha ispirato quest’opera?
L’opera nasce da alcuni «floor works» degli anni Novanta basati sulla forma del tappeto e sul concetto della disgregazione della superficie. Qui ho ripreso l’idea di «terreno instabile» estendendola a tutto il mondo. Non ci sono confini politici, solo continenti, rappresentati come delle biglie di vetro trasparente in equilibrio precario. Quando le persone camminano sulla mappa, le biglie rotolano ed escono fuori dallo spazio. La superficie è al contempo fragile e insidiosa, perché si può scivolare o cadere. Ho rivisitato una mia opera del 1998, intitolata semplicemente «Mappa», dove usavo però biglie più piccole e di colore verdastro o blu, per dare l’idea dell’acqua.
Qual è la sua «mappa del mondo» oggi?
Nel 2006 ho realizzato «Hot Spot», con dei tubi di neon rosso per delineare i contorni dei continenti. Volevo dire che il mondo, con le sue guerre, conflitti e tensioni, è un unico «hot spot» e che la guerra non si limita ad alcune regioni dove ci si disputano i confini, ma è qualcosa che riguarda tutto il mondo. Penso che il mondo stia vivendo un periodo di grande sconvolgimento. È ancora così che vedo la mappa del mondo oggi.
Il corpo, anche nella sua dimensione psicologica e politica, è un elemento centrale del suo lavoro. Qual è il suo punto di vista oggi?
Nel 1980 usavo il mio corpo come veicolo di espressione delle mie performance. Ho anche usato parti del corpo, capelli, unghie, pelle, come «materiale» dei miei lavori su carta prima e delle mie installazioni e sculture poi. In queste opere degli anni Novanta il corpo del pubblico ha preso il posto del mio corpo. Mi sono concentrata su come il corpo interagisce con i materiali e lo spazio e come si mescola con le ombre.
Nel suo lavoro ha usato diverse tecniche e materiali. Che cosa le resta da esplorare?
È vero che ho provato diverse forme e modi di lavorare. Non è mai stato fine a se stesso, ma è sempre stato uno strumento per esprimere le mie idee. Mi piace sia il «fatto a mano» che il «prefabbricato». E mi piace assemblare oggetti trovati e utensili. Mi lascio portare dalle sensazioni del momento e da ciò che credo sia più adatto allo spazio su cui sto lavorando. È lo spazio il punto di partenza dell’ispirazione. Ripeto spesso che ciò che mi piace di più del lavoro d’artista è che non so mai in che parte del mondo sarà la mia prossima mostra. E fintanto che sarò invitata a mostrare il mio lavoro in spazi diversi, da qualche parte nel mondo, ci saranno cose nuove ed eccitanti da esplorare.

Luana De Micco, 04 giugno 2015 | © Riproduzione riservata

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