Kromya Art Gallery conduce da tempo nella sede di Lugano (diretta da Tecla Riva) una ricerca intorno alla materia e al gesto. Inevitabile che la sua strada incrociasse quella di un vero maestro di questo linguaggio quale è Giuseppe Spagnulo (Grottaglie 1936-Milano 2016), che infatti, dall’11 marzo al 20 giugno, è il protagonista della mostra «Arcaico. Moderno. Futuro: Giuseppe Spagnulo», curata da Luca Massimo Barbero con la collaborazione dell’Archivio intitolato all’artista. Metallo e argilla i suoi materiali prediletti, quest’ultima conosciuta sin da bambino nell’officina di famiglia a Grottaglie, la capitale pugliese della ceramica. Una sorta di «ereditarietà» la sua, non lasciata però allo stato nativo ma sviluppata e coltivata formandosi prima all’Istituto della Ceramica di Faenza (dove conosce Nanni Valentini, altro grande protagonista di questa forma di scultura), poi all’Accademia di Brera, che gli schiude le porte dell’ambiente artistico milanese più aggiornato e sperimentale di quegli anni in cui Lucio Fontana è maestro di un’intera generazione. Potenti nel modellato, monumentali anche nella piccola dimensione e primordiali nelle forme, che di volta in volta riportano alla mente il magma solidificato di un vulcano o i resti ciclopici delle più antiche civiltà del Mediterraneo, i suoi lavori, commenta Barbero, sono «espressione di una “distanza zero” tra pensiero e azione plastica. Dal pensare allo scolpire. L’opera di Giuseppe Spagnulo si plasma attraverso l’incontro tra la materia e il fuoco. Un vitale e complesso corpo a corpo con il metallo e l’argilla che consegna all’arte contemporanea questi materiali in origine inerti con tutta la potenza di una esistenza antica quanto lo è il mito classico».

Giuseppe Spagnulo, «Rosa dei Venti», 2011. Ph. Antonio Maniscalco. Courtesy Associazione Archivio Giuseppe Spagnulo
La mostra di Lugano presenta in apertura una serie di lavori in terracotta esposti su un tavolo che evoca il banco da lavoro dell’artista, seguiti da una ventina di opere («Carte», «Ferri» e «Terre cotte») degli anni tra il 1964 e il 2013 che, pur nella diversa materia, condividono lo stesso respiro mitico di tutta la sua produzione: accade anche con le carte, su cui Spagnulo amava stendere ossidi ferrosi, carbone, sabbie vulcaniche, che le riconducono a un primordio ancestrale. E che ne fanno non dei lavori preparatori ma delle vere opere autonome, dalla grande forza plastica e fisica. Quanto ai ferri, soprattutto a partire dagli anni ’70, esibiscono una nudità della materia che secondo alcuni li trasforma in «materia erotica» e che in certi casi (come nell’acciaio «Senza titolo» del 1970 circa, in mostra, attraversato da una faglia profonda) sembrano condividere la stessa tensione dei «Tagli» di Fontana. Presente con opere monumentali alla Biennale di Venezia del 1972, dove il suo lavoro acquisisce una visibilità e un riconoscimento internazionali, e poi di nuovo nel 1986, dai primi anni ’90 Giuseppe Spagnulo, che aveva riscosso un grande successo specialmente nei paesi di lingua tedesca, fu chiamato a insegnare Scultura all’Accademia di Belle Arti di Stoccarda. In seguito saranno numerose le personali in musei curate da studiosi e curatori autorevoli come Bruno Corà, Francesco Bonami, Marco Tonelli e Luca Massimo Barbero, cui oggi si deve anche questa mostra.

Giuseppe Spagnulo, «Senza titolo», 1986. Ph. Antonio Maniscalco. Courtesy Associazione Archivio Giuseppe Spagnulo