Gli artisti americani hanno fatto di tutto per evitare la rielezione di The Donald, ma i collezionisti meno. Uno di loro, Kenneth Griffin, è stato tra i maggiori finanziatori del neoeletto presidente con una donazione di 100 milioni di dollari. Il proprietario di Citadel, che gestisce hedge fund, intesi come fondi d’investimento ad alto tasso speculativo, nel 2022 aveva un patrimonio netto di 27,2 miliardi di dollari ed è nella classifica dei 200 top collector di «Artnews» con alcuni storici dipinti di Jackson Pollock, Roy Lichtenstein e Willem de Kooning di cui possiede «Interchange», l’opera che nel 1989 raggiunse da Sotheby’s a New York la cifra record di 20 milioni di dollari.
Al primo posto tra i sostenitori del tycoon, con una donazione di 172 milioni di dollari, ben 40 milioni al di sopra di Elon Musk, c’è poi Timothy Mellon, erede della mitica Mellon Collection, una delle eccellenze americane che spazia da Vincent van Gogh ad Alberto Giacometti. Quando nel 2014 da Sotheby’s a New York una piccola parte della raccolta venne venduta al miglior offerente, ottenne 218 milioni di dollari con un’opera senza titolo di Mark Rothko aggiudicata per 40 milioni di dollari. Insomma, il denaro non dorme mai, come afferma il rampante Gordon Gekko, perfetto esempio del trumpismo, in «Wall Street» (1987) di Oliver Stone. E certo i benpensanti liberal con le loro buone intenzioni sono riusciti a fare ben poco per contrastare il politicamente scorretto. In difesa di Kamala Harris si era schierato praticamente tutto il gotha dell’arte americana mettendo insieme un campo larghissimo che spazia da Simone Leigh a George Condo sino a Jasper Johns. Eppure, le donazioni delle loro opere (alcuni, al di là dei proclami, si sono limitati a concedere misere litografie) per la candidata democratica hanno fruttato appena 1,5 milioni di dollari in un’asta sulla piattaforma di Artnet.
La criptoarte riparte con Trump
Ma chi potrà trarre vantaggio dal «pagliaccio che non fa ridere», secondo la definizione che ne ha dato Daniel Pennac? Sicuramente il mercato delle criptovalute che dopo anni di fallimenti, scandali e crolli dalle sue elezioni è cresciuto di un terzo. La deregulation delle cripto, che non si basano su reali fattori economici ma solo sul rapporto tra domanda e offerta, quindi una pura scommessa verbale, appare di per sé uno strumento ad alto rischio e l’arte ne ha già pagato le conseguenze con il flop degli Nft a seguito di una fiammata priva di logica. I giochi, tuttavia, si possono ripetere e il primo a trarne beneficio è stato Maurizio Cattelan con la sua banana attaccata con il nastro adesivo («Comedian») che ha monopolizzato la comunicazione oscurando il resto del mercato. Il 20 novembre nell’asta newyorkese di Sotheby’s «Comedian» era l’unica opera che si poteva acquistare in critopvalute. Ne ha approfittato l’imprenditore cinese Justin Sun che si è spinto sino a 6,2 milioni di dollari pagandola con Trx, la cripto utilizzata sulla sua piattaforma blockchain Tron da lui fondata nel 2014. In questo modo ciascuno potrà battere in asta utilizzando le proprie cripto e scivolare sulle banane senza rompersi l’osso del collo. E dunque in questa logica gli Nft e i loro derivati hanno l’opportunità di ripartire per conquistare nuovamente una ciurma di sprovveduti pronti a illudersi.
Cattelan a parte, le prime aste newyorkesi dell’era Trump sono state caratterizzate da un mercato che pur rimanendo altalenante e assai contratto con molti flop, tra cui addirittura Pablo Picasso e Henri Matisse, sembra uscito dalle acque melmose dei mesi scorsi. Sono tornati i venditori con due collezioni private che hanno fatto l’en plein in un mercato che tra Sotheby’s e Christie’s ha fatturato 1,2 miliardi di dollari dominato dal record di 121,1 milioni di dollari fatto segnare da «L’empire des lumières», l’emblematico dipinto di René Magritte proveniente dalla collezione di Mica Ertegun (scomparsa a dicembre 2023 all’età di 97 anni), l’interior designer più famosa di New York.
«Make America Great Again», lo slogan della campagna elettorale di Trump, è destinato a essere un tormentone anche per l’arte dove il primo movimento pronto a ripartire sembra essere la Pop art con il suo eccesso di elementi iconici e identitari. Da Sotheby’s il 20 novembre ha trionfato «George’s Flag», la monumentale bandiera a stelle e strisce lunga oltre tre metri che sventola indisturbata davanti a una campitura astratta. L’opera di Ed Ruscha è stata contesa sino a 13,6 milioni di dollari, cifra superiore di ben otto volte rispetto a quanto era avvenuto da Christie’s l’8 novembre 2005 quando il bandierone aveva dovuto accontentarsi di un’aggiudicazione pari a 1,6 milioni di dollari. Ma Ruscha potrebbe essere il simbolo della rinascita e il 19 novembre da Christie’s «Standard Station», la sua stazione di benzina interpretabile come un omaggio a Edward Hopper, ha stabilito il nuovo record con un prezzo sensazionale di 68,2 milioni di dollari. Se Jeff Koons è crollato miseramente con la sua irriverente signorina al bagno («Woman in Tub») in porcellana andata invenduta da Sotheby’s nonostante la stima di 10-15 milioni di dollari, nella stessa occasione la Stanza Ovale della Casa Bianca («Oval Office») reinterpretata da Roy Lichtenstein ha cambiato proprietario per 4,2 milioni quadruplicando le stime. Sempre di Lichtenstein, ma questa volta da Christie’s, è bastato un «George Washington» disegnato in maniera approssimativa per tagliare il traguardo a oltre 7 milioni di dollari, otto volte il valore del 2001.
Il Warhol mai pagato da The Donald
Tra i leader pop è rimasto in sordina Andy Warhol che attraversa una fase down. Di lui però è apparsa il 19 novembre da Phillips la facciata della Trump Tower dal titolo «New York Skyscrapers». Si tratta di un’opera commissionata da Trump nel 1981 per il suo edificio di Manhattan allora ancora in costruzione. L’artista americano non fece alcuna concessione estetica e profilò l’edificio in maniera asettica circondandolo con una serie di palazzi neri piuttosto spettrali. L’immobiliarista di allora, con il medesimo sprezzo di oggi, non pagò l’opera né si sognò di ritirarla, tanto che Warhol scrisse nel suo Diario: «Odio i Trump (Donald e Ivana, sua moglie di allora, Ndr) perché non hanno mai comprato i miei dipinti». Da Phillips ha ottenuto 952mila dollari, poco di più delle stime attestate a 500-700mila. Nemmeno in questo caso The Donald si è fatto vivo e nessuno dei suoi seguaci ha alzato il telefono per ricomprarsi la Torre confermando il giudizio sferzante di Andy. Ma in asta il colpo del ko è arrivato da Jean-Michel Basquiat: un suo doppio «Autoritratto» del 1983, è rimasto alla sbarra sebbene in teoria avrebbe dovuto trovare un acquirente disposto a spendere una cifra compresa tra 10 e 15 milioni di euro. È presto per dire se Samo abbia cambiato rotta, ma a New York non ha brillato nemmeno da Christie’s che il 21 novembre ha venduto un suo grande dipinto su carta a 23 milioni di dollari (pur sempre il nuovo record per opera su carta) sfiorando il prezzo di riserva.
Comunque vada, non ci sarebbe da stupirsi che con la nuova governance i paradigmi subiscano cambiamenti repentini mandando in soffitta ciò che fino a ieri era di gran moda. I trend dell’arte, soprattutto negli ultimi anni, sono apparsi quantomai sensibili alle tematiche politiche tanto che gli argomenti trattati e i luoghi di provenienza degli artisti hanno avuto un peso determinante. Basti pensare all’ultima Biennale veneziana (chiusasi con un’affluenza di 700mila visitatori), a tratti terribile, assoggettata alle questioni Lgbtq+ con gran parte delle scelte basate su criteri esclusivamente ideologici.
All’epoca di Trump-Joker ci sarà ancora spazio per la cultura woke e per il mercato spericolato degli artisti africani? Le donne riusciranno a mantenere la leadership faticosamente conquistata nonostante le pressioni dei maschi alfa? E quali sono gli outsider pronti a debuttare? Una cosa è certa: «Oggi le verità immutabili sono troppo poche». A scriverlo è stata Jenny Holzer su una delle sue panchine di meditazione.
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