Uno shock: tale fu, per la «gente della moda» (ma più ancora per la «gente alla moda») che si trovava a Milano nel 1991, l’apertura di 10 Corso Como, il primo concept store italiano: «Fu il sociologo Francesco Morace a coniare per me quella definizione oggi diffusa ovunque», ci disse la sua ideatrice, Carla Sozzani, in una lontana conversazione per «Il Giornale dell’Arte». La sede? Una «casa di ringhiera» (le abitazioni operaie dell’ultimo Ottocento) in corso Como 10, all’Isola, quartiere popolare lontano anni luce da ogni mappa mentale della Milano-bene. Un trauma per chi, a quel tempo, contemplava per gli acquisti solo via Montenapoleone o l’area di Brera. Ma proprio grazie a quel concept store, l’Isola diventò subito il fulcro della moda, della creatività e di un nuovo modo del vivere, opposto a quello opulento e ostentato degli anni Ottanta. Merito di quella giovane donna esile e diafana, lunghi capelli biondi, delicata all’apparenza, in realtà (parole dell’amico-fratello, lo stilista Azzedine Alaïa) «un concentrato di energia», che da quel cortile malconcio, tra un meccanico e un fruttivendolo, con il suo concept store (e, dall’anno prima, con la sua galleria) trasformò il quartiere e la percezione dell’intera area, presto diventata una delle mete d’obbligo della Milano più «cool».
Quali siano state le premesse e poi le vaste ramificazioni di questo duplice, pionieristico progetto (galleria e store), è raccontato da Louise Baring nel libro Carla Sozzani. Arte, vita, moda (288 pp., L’Ippocampo, Milano 2024, € 39,90), una biografia fitta di fotografie (anche private: l’elegantissima mamma, il padre ingegnere, sempre in doppiopetto, l’inseparabile sorella Franca, iconica direttrice di «Vogue Italia» per 28 anni, fino alla scomparsa prematura nel 2016) da cui emerge un mondo in cui il gusto e la cultura trasmessi dalla solida famiglia borghese (i cui pilastri erano cultura e disciplina: «Non dire mai “sono stanca” e non dire mai “non ho tempo”», l’insegnamento del padre alle figlie) si mischiavano al bisogno di libertà della generazione del Sessantotto, con i viaggi a Londra, la musica e la moda rivoluzionarie ma anche le frequentazioni «giuste» e gli amori.
Tutti ingredienti cui, nel suo caso, si aggiungeva un’insaziabile curiosità: Carla Sozzani ha infatti intrapreso nel tempo sempre nuove avventure professionali, spesso abbandonate quando raggiungeva la vetta, in cerca di nuovi stimoli. Nel 1979, direttrice di tutte le testate del gruppo Chérie Moda, dov’era entrata come correttrice di bozze ai tempi della Bocconi (dove poi si laureò), dopo centinaia di viaggi a Parigi per le sfilate e nella sua amata Africa per i servizi fotografici con Alfa Castaldi, lascia tutto e va nella più prestigiosa Condé Nast. Qui fa una rapida carriera, ma nel 1986 lascia di nuovo e va a creare la rivista «Elle»: avventura finita male per i dissidi con l’editore. Allo smacco reagisce con una nuova piroetta: «Basta dirigere giornali; voglio dirigere vestiti». E diventa l’anima e il motore del marchio Romeo Gigli, innamorata del suo stile senza fronzoli, classico e minimalista. La sede? Corso Como 10. Dove dal settembre 1990 esordisce l’avventura della Galleria Carla Sozzani. Che lei inaugura con una mostra di Louise Dahl-Wolfe, allora ignota ai più. Sarebbero poi arrivati Carlo Mollino fotografo e tutto il meglio della fotografia, da Man Ray in poi. Perché la sua era all’inizio una galleria di sola fotografia: una follia in Italia, dove nessuno la considerava arte. Eppure il successo fu immediato e quando, nel 1993, s’inaugurò la personale di Helmut Newton, la fila dei visitatori si allungava per tutto l’isolato. Presto la galleria (dove aggiunse arte e design) diventò così una meta internazionale, un «epicentro di cultura».
Intanto, nel 1989 era nata la Carla Sozzani Editore: «La carta è una passione, una sorta di malattia, una dipendenza», commentava, e pubblicava le monografie di Walter Albini, suo primo mito, Romeo Gigli e altri, mentre nel 1991, accanto al compagno di una vita, l’artista e designer americano Kris Ruhs, avviava «NN Studio» (cioè «NoName Studio»), progetto collettivo di moda e artigianato che contestava i loghi esibiti degli Ottanta. Il capo di punta, una (perfetta) camicia bianca: «Niente può battere una camicia bianca», il mantra di Carla Sozzani. E, insieme, abiti e oggetti sobri e senza tempo. Sempre nel 1991, ecco «10 Corso Como»: negozio, libreria, galleria, caffè. «Una rivista vivente, dice lei, con visitatori anziché lettori». Nel 2016, con Kris Ruhs e con la figlia Sara Sozzani Maino, anche lei guru della moda, istituisce poi la Fondazione Sozzani, oggi divisa in due sedi a Milano (alla Bovisa, vicino al Politecnico, e in via Tazzoli 3) e una a Parigi. Senza dimenticare il rilancio delle creazioni di Azzedine Alaïa e molto, molto altro ancora. Il tutto, inframmezzato da vacanze a Portofino e a Marrakech e da viaggi nel mondo. Non sbagliava Alaïa quando la definiva «un concentrato di energia».
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