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Guido Guidi in un ritratto di Aldo Galliano © Aldo Galliano

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Guido Guidi in un ritratto di Aldo Galliano © Aldo Galliano

L’anno di Guido Guidi, tra Paris Photo e Seul

Intervista a uno dei maestri della fotografia italiana. Nel 2023 il suo nome è comparso in diverse mostre e pubblicazioni internazionali

Francesca Romana Morelli

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Una fotografia di Guido Guidi del 1985 è stata scelta per accompagnare la prima newsletter dell’edizione di Paris Photo 2023. Inquadra una casa nella campagna vicino a Cesena, con due bambini che giocano sul limite del cancello d’ingresso aperto. Una foto che ha il sapore delicato di un’Italia sempre meno visibile, un’immagine della sua terra d’origine.

Guidi (1941) è nato infatti a Cesena, dove tuttora vive e lavora. Ha studiato Architettura allo Iuav di Venezia, formandosi nei corsi di Carlo Scarpa, Italo Zannier e Luigi Veronesi. Influenzato dall’arte concettuale nelle sue diverse declinazioni, ha cominciato a esplorare il paesaggio italiano modificato dall’uomo, volgendo lo sguardo verso i territori marginali della provincia.

Oggi il fotografo romagnolo è considerato parte del gruppo che nei decenni Settanta e Ottanta ha aperto una nuova area di ricerca per la fotografia italiana, legandola a discipline come l’architettura, l’urbanistica, la letteratura, la sociologia, fino all’antropologia.

Il 2023 è stato un anno di grande interesse verso Guidi. Al MAMbo di Bologna, fino al 7 gennaio, la mostra «Architettura e fotografia nelle campagne dell’Emilia-Romagna», accosta le sue fotografie agli studi architettonici prodotti da Maura Savini dell’università felsinea. Vicino a Seul (Corea del Sud), il DongGang International Photo Festival, all’interno del focus su undici autori italiani, ha incluso quaranta lavori di Guidi, una sorta di prima personale in Estremo Oriente. All’Istituto Centrale per la Grafica, la direttrice Maura Picciau ha acquisito una delle sue opere più celebri, «Preganziol» (1983),  sedici fotografie in bianco e nero (stampa ai sali d’argento), ambientate in una stanza vuota e malandata di Villa Franchetti a Preganziol (Treviso).

E ancora, l’inglese Michael Mack, tra i più vitali editori di fotografia, che ha collaborato con lui a libri ormai introvabili, ha pubblicato Di sguincio, 1969-81, il primo della trilogia Album, immagini prese al volo con un’istantanea di piccolo formato.

Anche il mercato dei collezionisti risponde bene. La scorsa primavera, da Finarte, c’è stato il suo record d’asta, e questo novembre, il debutto ufficiale a Paris Photo con una personale nella Main Section, con le gallerie che lo rappresentano: la milanese Viasaterna di Irene Crocco e la londinese Large Glass di Charlotte Schepke.

Abbiamo incontrato Guidi presso l’Istituto Centrale per la Grafica.

Come è nata la serie di «Preganziol»?
Mi interessava seguire il movimento impercettibile della luce naturale proveniente dall’esterno, proiettata dalla finestra sulla stessa parete. A un certo punto una nuvola si è inchiodata nel cielo, per cui quel rettangolo di luce presto è svanito. Nelle mie intenzioni, l’immagine fotografica dovrebbe coincidere con la realtà,ma non ci riesco, rimane per sempre immagine.  La verità: non voglio in alcun modo prevaricare la realtà.

È stato sempre così fin dagli inizi?
Quando ero al liceo artistico (1953) comprai un manuale sulla tecnica del judo, uno per imparare a nuotare, uno sulla tecnica fotografica. Nel tempo ho capito che la mia scelta celava delle relazioni: l’acqua serve per sviluppare le fotografie ed è arrendevole (infatti presto cominciai a nuotare…), il judo insegna la fluidità dei movimenti del corpo, il controllo assoluto della tecnica per assecondare le forze contrarie: se un avversario ti viene addosso, non ti opponi ma lo fai volare. La conoscenza del judo mi aprì allo zen e alle filosofie orientali.

La fluidità è un concetto che torna spesso nel suo lavoro.
Quando fotografo cerco innanzitutto di svuotare me stesso, di uscire fuori dalla mia testa, di abbandonare qualsiasi luogo comune, o antefatto. In «101 storie zen» si narra di un intellettuale che va da un maestro zen affinché gli insegni la disciplina; questi gli offre del tè e gli versa l’acqua nella tazza, continuando anche quando strabocca. Sconcertato, l’uomo chiede al maestro perché non si fermi, ricevendo una risposta illuminante: «Torna quando la tua testa non sarà più piena come questa tazza di tè». È una sorta di stato di grazia, il fluire dell’atto del fotografare e sapersi fermare al momento giusto. Nel caso di «Preganziol», ho cercato di assecondare il movimento del cono luminoso della finestra, ma a stabilire la conclusione della sequenza è stata la nuvola. Il «caso» è stato funzionale alla riuscita dell’opera.

Che cosa altro è importante quando fotografa?
La padronanza dello strumento. Devi lavorare, lavorare e lavorare ancora, finché la macchina fotografica non è come incorporata con te stesso. Il pensiero viene dopo, se lo desideri, anche a distanza di anni; tornare a guardare una fotografia è basilare, perché un errore involontario può generare errori volontari che non sono più tali. A ben guardare, «errare» significa sbagliare ma anche vagabondare, ma entrambi sono un incentivo a percorrere nuove strade.

Colpisce che lei si sia focalizzato su architetture umili, plasmate dall’uomo, ma nel contempo abbia frequentato Scarpa, Zevi, fotografato le opere di Le Corbusier, di van der Rohe…
Ho fotografato le architetture di Scarpa e di altri architetti spinto dal bisogno di capire un linguaggio diverso dalla fotografia; questa non è altro che la traduzione di un altro linguaggio. È lo stesso atteggiamento con cui mi approccio a un paracarro, di cui non conosco chi lo ha fatto e chi lo ha messo in posa. A me interessa il «gergo».  Le architetture di Scarpa, come la tomba monumentale Brion, hanno una misura religiosa, sono legate a una filosofia e a una  spiritualità arcaiche.

Intende un approccio di fatto laico? Del  resto lei è della generazione cresciuta con il ’68.
Se fotografo un paracarro stradale, per me è dotato di spiritualità quanto la persona che gli sta accanto. Ho osservato a lungo i dipinti di Giorgione, dove gli uomini sono concepiti in una dimensione più piccola rispetto al paesaggio, riguardano più il mondo dell’ordinario, del naturale, per questo diventano esseri spirituali.

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Francesca Romana Morelli, 07 novembre 2023 | © Riproduzione riservata

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